Salari, il divario di genere colpisce di più le laureate che lavorano

Ogni ora, in Italia, una lavoratrice guadagna in media 15,9 euro: un lavoratore, 16,8 euro. In un anno, questo scarto si traduce in una differenza di salario di circa 6mila euro. Secondo l’ultima indagine Istat sulle retribuzioni in Italia, infatti, nel 2022 il differenziale retributivo di genere è del 5,6%. Esistono, però, ampie differenze in base al livello di istruzione, al tipo di professione e al tipo di azienda. E anche se il gap resta al di sotto della media dei Paesi dell’Unione europea , il fenomeno resta preoccupante, come spiega l’economista Azzurra Rinaldi. Donne più istruite ma meno retribuite Dal 5,6% al 16,6%: questo l’aumento del gender pay gap tra la media nazionale e lo stesso parametro nelle fasce più istruite della società. Tra i laureati, infatti, la retribuzione media oraria è di 20,3 euro per le donne e di 24,3 euro per gli uomini. Un paradosso, se pensiamo che le studentesse hanno un tasso di abbandono scolastico più basso rispetto agli studenti e sono in media più istruite: nel 2023, il 68% delle donne tra i 25 e i 64 anni aveva almeno un diploma o una qualifica, mentre tra gli uomini la percentuale era del 62,9%. Inoltre, il 24,9% delle donne possedeva un titolo terziario, contro il 18,3% degli uomini. “È un brutto messaggio per le giovani donne a cui continuiamo a dire: studiate”, commenta Rinaldi, sottolineando che è proprio nei ruoli più qualificati, dove le discriminazioni e gli stereotipi di genere possono avere un impatto maggiore. Il peso della segregazione orizzontale Nel settore privato a pesare è poi non solo il cosiddetto soffitto di cristallo, inteso come l’insieme di barriere sociali, culturali e psicologiche invisibili ma insormontabili che impediscono alle donne e ad altre categorie discriminate di raggiungere posizioni di leadership e avanzare nella carriera, nonostante i loro meriti e risultati, ma anche la segregazione orizzontale. “Questo tipo di segregazione porta le donne a concentrarsi in settori dove tradizionalmente ci si aspetta di trovarle, come l'istruzione e la sanità, che sono spesso considerati ‘naturali’ per loro. Tuttavia, questi ruoli sono generalmente a basso reddito e hanno poca rilevanza sociale, perpetuando così la disuguaglianza economica e sociale”, spiega l’economista. “Al contrario, quando le donne cercano di entrare in ambiti tradizionalmente maschili, il sistema patriarcale le penalizza, limitando le loro opportunità di carriera e avanzamento professionale. Questo sistema definisce chi è ‘giusto’ per un determinato ruolo e dove dovrebbe lavorare, creando barriere invisibili che impediscono la libera scelta professionale”, aggiunge Rinaldi. E i dati italiani lo dimostrano: è proprio nei ruoli direttivi e nelle forze armate dove il gap salariale aumenta e raggiunge rispettivamente il 30,8% e il 27,7%. Ma la segregazione orizzontale penalizza non solo le donne: “Ironia della sorte, anche gli uomini che desiderano intraprendere carriere considerate ‘femminili’, come quella di maestro, spesso incontrano difficoltà nel trovare lavoro, a causa degli stessi pregiudizi e stereotipi che limitano le opportunità delle professioniste”, commenta Rinaldi. Il report segnala inoltre un divario retributivo di genere del 17,6% nel settore dell’artigianato e tra gli operai specializzati. Tuttavia, “il tessuto artigianale italiano è caratterizzato da un significativo contributo delle imprese guidate da donne, che hanno mostrato una tendenza di crescita importante negli ultimi anni”, spiega Rinaldi. Secondo un rapporto di Confartigianato pubblicato nel 2024, in Italia oltre 1,6 milioni di donne gestiscono imprese indipendenti, con un incremento del 4,8% delle occupate indipendenti tra il 2021 e il 2023. L’eccezione del settore privato “Uno dei fattori che nel nostro Paese concorre fortemente a determinare il differenziale salariale di genere è l’effetto di composizione tra il comparto a controllo pubblico e quello a controllo privato”, spiega l’Istat nel suo report. Se infatti il divario di genere nelle retribuzioni nel settore privato è pari al 15,9%, in quello pubblico scende al 5,2%. Non solo: è qui che le donne rappresentano la maggior parte della forza lavoro e dove il gender gap tra i dipendenti più istruiti si riduce. Tra le laureate, infatti, la retribuzione oraria arriva a 23 euro ed è di ben 6,9 euro superiore a quelle delle laureate nel comparto privato. “Nel settore pubblico, la normativa e gli scatti salariali sono ben definiti, rendendo più difficile la discriminazione retributiva. Il privato, invece, è caratterizzato da contratti collettivi nazionali che non coprono tutti i lavori, lasciando spazio a disparità salariali”, commenta Rinaldi. Non esistono dati o ricerche sui motivi che spingono le donne a lavorare nel settore pubblico, al di là delle preferenze personali e dalle retribuzioni generalmente più alte rispetto al settore privato. “Possiamo ipotizzare che uno dei motivi sia il fatto che nel pubblico i lavori offrono una maggiore stabilità, con orari più prevedibili e talvolta flessibili e ridotti, che rendono più semplice la conciliazione con il lavoro di cura”, spiega l’economista. L’Italia al di sotto della media UE Il gender pay gap nell'Unione Europea si attesta al 12,7% e ha subito solo piccole variazioni negli ultimi dieci anni. In Italia quindi il divario salariale di genere è al di sotto della media europea, ma questo dato è influenzato da un contesto più ampio di bassa occupazione femminile. Infatti, solo il 56,5% delle donne tra i 20 e i 64 anni lavora, rispetto al 76% degli uomini, creando un divario di occupazione di 19,5 punti, quasi il doppio della media degli altri Paesi dell’Unione europea. “In Italia, le aziende sanno che le donne sono spesso ricattabili a causa della mancanza di infrastrutture per le famiglie. Non solo: il fatto che la NASpI premi le donne che si licenziano durante la gravidanza è un esempio di come il sistema incoraggi le donne a lasciare il lavoro anziché supportarle a rimanere”, commenta Rinaldi, aggiungendo che le donne che lasciano il mercato del lavoro difficilmente rientrano . “Il modello italiano sembra essere nostalgico e legato a un'idea di un'età dell'oro che non è mai esistita. L'immagine della madre felice dentro casa è un falso storico, poiché le donne di generazioni passate vivevano spesso sotto la violenza e la sopraffazione. Questo approccio nostalgico e retrogrado si traduce in una mancanza di prospettiva e crescita, sia economica che demografica”, conclude l’economista.

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