Cosa sta facendo l'Ue per rendere più competitive le aziende europee?

Il 29 gennaio la Commissione Europea pubblica il “Competitiveness compact”, un piano di semplificazioni e altre misure ispirato dal Rapporto Draghi e sollecitato a gran voce di recente anche da Francia e Germania. Trattandosi di un piano, il documento resterà necessariamente sulle generali. Il vero punto di svolta sarà la pubblicazione a fine febbraio del pacchetto di semplificazione, altrimenti detto pacchetto “omnibus”. Si tratta di passi essenziali per evitare che le imprese europee siano sacrificate rispetto a quelle americane , cinesi e di altre nazioni, sull’altare di obiettivi pure nobili, ma che non potranno essere mai raggiunti se il loro risultato sarà quello di rendere troppo ardua per le nostre imprese competere con chi non viene sottoposto a certi vincoli. Inutile imporre standard a imprese che poi finiscono per essere sempre più piccole perché perdenti nella competizione globale. Non è però scontato che la Commissione riesca a superare gli ostacoli posti, al suo interno e nel Parlamento europeo, verso una significativa semplificazione. Anche se l’oggetto del contendere è più ampio, mi soffermo qui su tre passate direttive che sono al centro della discussione. La prima è la Corporate Sustainability Reporting Directive, che è stata approvata nel 2022, che andrà a interessare direttamente 50.000 imprese e che è già stata incorporata nella legislazione della maggior parte degli Stati membri, compresa l’Italia. La Direttiva impone, con vincoli che diventeranno operativi il prossimo anno, di raccogliere dettagliate informazioni e pubblicare rapporti sull’impatto ambientale, sociale e di governance interna alle imprese, rispetto a dieci standard di sostenibilità . Uno dei problemi di questa direttiva è che, essendo per certi aspetti estesa all’intera catena di valore delle imprese, finisce per coinvolgere, in termini di obblighi di reporting anche imprese di dimensione medio-piccola che devono fornire queste informazioni a imprese più grandi per timore di perdere volumi di vendita. La seconda direttiva è la Corporate Sustainability Due Diligence Directive, anche questa volta a sostenere gli obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale. Questa comparta pesanti multe, imposte dai supervisori nazionali, in caso le imprese coinvolte abbiano rapporti commerciali lungo tutta la catena del valore con imprese, ovunque queste siano localizzate, che non rispettano stardard di sostenibilità. Questa direttiva si applica solo alle imprese più grandi, ma, anche in questo caso, ci sono implicazioni per imprese di dimensione più contenuta visto che gli obblighi riguardano l’intera catena del valore. Si noti che questa direttiva non sarebbe passata se il governo Meloni non l’avesse avesse votata nel maggio 2024: l’approvò, sembra, avendo in cambio una modifica, cara a certe parti dell’industria italiana, nella Direttiva sul Packaging. La terza direttiva è quella sulla cosiddetta tassonomia che definisce cosa si debba intendere per attività “verdi” o che, per lo meno, non recano danni significativi all’ambiente, ai fini della emissione di strumenti finanziari “verdi”. Anche in questo caso lo scopo è nobile, ma nell’applicazione pratica ci sono stati problemi. Per esempio, edifici a emissioni zero non sono stati considerati verdi perché gli impianti idraulici non erano in linea con gli standard per il consumo dell’acqua; e auto elettriche hanno subito lo stesso trattamento perché la gomma dei pneumatici conteneva materiali non considerati verdi. Che Ursula Von der Leyen riesca a semplificare e rendere meno estremi queste direttive è ancora incerto. Deve affrontare un’opposizione interna, per esempio dalla socialista Teresa Ribera, Vice-Presidente esecutiva responsabile per le politiche di sostenibilità, e di parte del Parlamento Europeo. La sinistra sarà contraria, come pure parte dei centristi di Renew, anche se Macron ha cambiato idea e anche Scholz, con l’avvicinarsi delle elezioni, sembra richiedere un’attenuazione dei vincoli.

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