Guerra in Ucraina, il ritorno del carbone

Economia

Giorgio Rizza

Nei piani del governo per allentare la dipendenza dal gas russo c’è anche il maggior sfruttamento delle centrali a carbone del nostro Paese. Una risposta ad una possibile emergenza energetica, ma dagli effetti complessivamente limitati

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L’Italia avrebbe dovuto dirgli addio entro il 2025, scadenza prevista dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, ma dopo la Guerra in Ucraina e le possibili ripercussioni sulle forniture di gas russo, adesso l’imperativo è diversificare e tra le possibili fonti energetiche alternative, torna anche quella del carbone. In via assolutamente preventiva il governo si prepara ad accelerare sugli stoccaggi in vista della prossima stagione invernale. Se necessario dunque, l’utilizzo del metano per la produzione di energia elettrica potrebbe essere in parte ridotto e convogliato verso le riserve strategiche, massimizzando contemporaneamente la capacità delle centrali che utilizzano carbone o riattivando i gruppi che sono stati spenti.

Le centrali a carbone in Italia

Le centrali ancora attive sono sei, alcune composte da più unità parzialmente operative. Vanno dalle due della Sardegna di Fiume Santo e Portoscuso, che però servono al fabbisogno dell’isola, a quella di Fusina vicino a Venezia e di Monfalcone spenta nel 2020, ma riattivata per qualche tempo lo scorso dicembre, fino ad arrivare alle più grandi di Brindisi e Torrevaldaliga Nord nei pressi di Civitavecchia, per un totale complessivo di circa 7.000 megawatt di capacità produttiva installata. Alla lista andrebbe teoricamente aggiunta anche la centrale di La Spezia, già a riposo da due mesi. Ma per riaccenderla servirebbe l’autorizzazione integrata ambientale da parte del ministero della Transizione Ecologica.  

L’uso del carbone per la produzione di energia elettrica

Per tornare a farle marciare al massimo della potenza basterebbero pochi giorni, qualche settimana per rimettere in moto le sezioni dismesse. Insomma, un intervento rapido e d’emergenza, rispetto ai tempi di altre soluzioni, ma pur sempre un intervento dalla portata limitata. Nel 2021, secondo Nomisma Energia con il carbone si è coperto appena il 5% del fabbisogno di elettricità italiano, solo una decina d’anni fa si arrivava al 13-15%. Mentre tra i Paesi avanzati, con il 27%, la Germania è quello che ha ancora la maggior percentuale di carbone nel suo mix elettrico. Se da noi si raddoppiasse la quota di partenza si arriverebbe allora a garantire con il carbone attorno al 10% dell’energia elettrica, rispetto però al 60% della domanda che viene soddisfatta con il gas. Ma c’è un aspetto da non sottovalutare. Tutta l’operazione sarebbe fatta per ridurre la dipendenza dal gas russo, ma a ben vedere è soprattutto ancora una volta dalla Russia che l’Italia importa la maggioranza del carbone che utilizza. In questo caso però, non essendoci i vincoli fisici rappresentati dai tubi dei gasdotti è più facile differenziare e far arrivare molte più navi da Stati Uniti, Colombia o Sud Africa.

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