Big oil, è ribellione tra gli azionisti che richiedono meno emissioni inquinanti

Economia

Lorenzo Borga

Gli azionisti, cioè i proprietari, delle grandi aziende petrolifere richiedono ai dirigenti più coraggio sul taglio delle emissioni inquinanti. Perché investire su petrolio e carbone oggi è un rischio che non vogliono più correre.

 Investire in combustibili fossili è un rischio che potrebbe non pagare più. È quello che stanno dicendo a gran voce gli azionisti stessi di alcune delle più grandi aziende petrolifere del mondo.

Exxon e i ribelli nel cda

La texana Exxon Mobil, una delle sette sorelle, ha visto entrare nel proprio consiglio di amministrazione almeno due due rappresentati di un fondo di investimenti ambientalista con in mano solo lo 0,02% delle azioni, Engine No. 1. Il gruppo è convinto che puntare ancora sui combustibili fossili possa mettere a rischio la sopravvivenza stessa di Exxon, e nonostante l’opposizione del management è riuscito a fare ingresso nel cda. Una mossa che sarebbe stata supportata da Blackrock, la più grande società di investimenti al mondo che - con una lettera del suo amministratore Larry Fink - ha promesso nel 2020 di disfarsi della maggior parte delle azioni di chi lavora nel settore delle fonti fossili (nonostante ancora oggi investa in aziende che sfruttano il carnbone).

La ribellione degli azionisti di Chevron

Alla californiana Chevron non è andata meglio. Il 61 per cento dei suoi azionisti si è ribellato al piano dell’azienda e ha votato una risoluzione per obbligare il gruppo a ridurre le emissioni inquinanti prodotte a causa della sua attività. Anche la borsa infatti si è accorta che investire su petrolio e carbone non paga, dopo anni di enormi investimenti in aziende super-inquinanti. Le regolamentazioni nazionali sempre più stringenti potrebbero mettere a rischio i profitti futuri, e i conseguenti dividendi. Per questo sono in crescita gli investimenti in titoli e prodotti finanziari Esg, rispettosi dei diritti sociali e dell'ambiente. Almeno a parole: una delle sfide per i regolatori è infatti definire con chiarezza cosa è ambientalmente sostenibile e cosa no, attraverso classificazioni e definizioni, per evitare il greenwashing.

 

La stessa Agenzia Internazionale dell’Energia, organizzazione internazionale che riunisce alcuni paesi ricchi produttori di energia, ha richiesto una linea dura per rispettare l’accordo di Parigi, che prevede di ridurre il riscaldamento globale almeno a 2 gradi, ma meglio a 1 grado e mezzo: basta, da oggi, con gli investimenti in nuovi progetti su fonti fossili. A differenza di quanto punta a fare per esempio Eni che entro il 2024 conta di scoprire nuovi pozzi petroliferi in Africa sub-sahariana, centro America e nel Mar di Norvegia.

La sentenza contro Shell

E dove non riesce il business arriva la giustizia. Nei Paesi Bassi una corte ha deciso che Shell, la compagnia petrolifera anglo-olandese, deve tagliare più emissioni inquinanti. Secondo il verdetto contro cui Shell si appellerà, dovrà infatti ridurre le emissioni fossili del 45 per cento entro il 2030, rispetto al 2019. Più di quanto deciso dalla compagnia che voleva fermarsi al 20 per cento. I giudici, sollecitati dalla denuncia di una Ong olandese, hanno infatti ritenuto Shell co-responsabile del riscaldamento globale e non rispettosa dei diritti umani. Una sentenza che potrebbe essere d'esempio anche in altri paesi europei.

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