Perché Bitcoin e le altre criptovalute (ma non tutte) inquinano così tanto

Economia

Lorenzo Borga

La tecnologia blockchain applicata ai Bitcoin e a molte altre criptovalute consuma enormi quantità di energia, necessaria a rendere sicure le transazioni.

Lo sappiamo, navigare in rete richiede energia che può inquinare l’ambiente. Lo stesso, e anche di più, accade quando acquistiamo e scambiamo criptovalute, le monete digitali decentralizzate di cui il Bitcoin è l’esempio più famoso. Se ne è accorto anche l’imprenditore visionario Elon Musk, tra gli uomini più ricchi al mondo, dopo aver deciso a febbraio di accettare pagamenti in Bitcoin per vendere le sue auto Tesla, ha fatto dietrofront. La motivazione data è appunto l’impatto ambientale di Bitcoin.

Perché consumano così tanta energia

La criptovaluta infatti non è basata su un sistema centrale di controllo, non esiste nessuna banca centrale del Bitcoin, ma si fonda sulla rete della blockchain. Si tratta sostanzialmente di un registro decentralizzato che raccoglie ogni transazione. E quando ci si scambia un Bitcoin la transazione deve essere validata e organizzata nella catena crittografata: a questo servono i cosiddetti “miner”, i minatori, che offrono la potenza di calcolo necessaria in cambio di pagamenti in nuovi Bitcoin appena "coniati". Per farlo i computer che mettono a disposizione sono impiegati a risolvere complessi problemi matematici, necessari a rendere sicura la transazione, e chi mette a disposizione più potenza di calcolo vince e si porta a casa i nuovi Bitcoin (secondo il processo della "proof of work"). È una vera e propria competizione, che consuma però enormi quantità di energia elettrica, perché le transazioni giornaliere sono nell’ordine delle centinaia di migliaia.

 

Tanto che se Bitcoin fosse uno stato, sarebbe oggi il 26esimo paese più energivoro del mondo, consumando quanto Egitto e Polonia, e metà dell’Italia. E più aumentano le transazioni, più energia è richiesta: dall’inizio dell’anno scorso, cioè da quando la criptovaluta ha vissuto un vero e proprio boom, l’elettricità necessaria è più che raddoppiata.

L'energia proviene da fonti fossili

Se tutta questa energia fosse prodotta attraverso fonti rinnovabili non rappresenterebbe un grosso problema: ma in realtà - secondo i dati di Bitcoin Electricity Consumption Index dell'Università di Cambridge - due terzi dei miner si trovavano in Cina, che ricava circa il 60 per cento dell’energia dal carbone, la fonte fossile più inquinante.

Anche le altre criptovalute inquinano molto (con qualche eccezione)

Ma Bitcoin non è l’unica criptovaluta a richiedere tali quantità di energia. Ethereum, la seconda valuta crittografata per diffusione, si basa sullo stesso sistema e infatti ha già raggiunto quasi un terzo dell’energia richiesta da Bitcoin. E pure Dogecoin, una criptovaluta molto amata da Musk nata per scherzo e con un logo raffigurante un cane giapponese, si basa sullo stesso schema ma almeno per ora almeno consuma decisamente meno perché ancora poco diffusa. Storia diversa invece per Cardano, una criptovaluta meno conosciuta basata su una tecnologia blockchain meno dispendiosa di energia elettrica. E non a caso il suo valore è cresciuto nelle ore dell’annuncio di Musk, in contro tendenza rispetto al mercato.

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