Il metodo Draghi, dall'amministrazione alla politica

Economia

Lorenzo Castellani

Il policy brief della School of Government della Luiss

La storia italiana può fornirci qualche indizio sui modi e sulle forme con cui potranno attuarsi le politiche di Next Generation Eu, programma straordinario di sostegno all’economia da parte dell’Unione europea, più comunemente noto come Recovery Fund. Sarà interessante, infatti, misurare il livello di continuità di questa nuova fase con i modelli del passato, assumendo una prospettiva storica di lungo periodo. Comprendere insomma se le peculiarità dello Stato italiano saranno destinate a rimanere tali oppure a smussarsi sotto l’influsso della europeizzazione delle politiche e di una nuova élite amministrativa. L’azione dei tecnici, fuori dai tradizionali ranghi dell’amministrazione, ha attraversato la storia dello Stato liberale, interessato il regime fascista e dato forza alla «repubblica dei partiti» nata dalla Resistenza; ha dato un segno alla pace prospera di inizio Novecento, ha tracciato le soluzioni per attraversare senza soccombere alla lunga disgregazione dell’ordine economico e politico nazionale e internazionale iniziato col primo conflitto mondiale e finito con la «ricostruzione» europea del secondo dopoguerra, ha disegnato gli indirizzi fondamentali del «miracolo economico» italiano. L’integrazione europea e la crisi finanziaria del 2008 hanno dato risalto ad attori pubblici come Cassa Depositi e Prestiti e SACE, oltre a confermare le società a controllo pubblico quali ENI, ENEL e Leonardo come le aziende maggiormente capitalizzate del nostro sistema economico. In tutti questi casi, l’élite amministrativa è stata incapace di trattenere i progetti e le politiche all’interno dei ministeri e si è ritrovata di fatto commissariata, su iniziativa della politica, da corpi amministrativi, più snelli, tecnocratici e simili nell’organizzazione alle aziende private.

Protagonisti del calibro di Nitti, Beneduce, Menichella, Serpieri, Ruini, Sinigaglia e poi Einaudi, Vanoni, Rossi-Doria, Saraceno, Mattei, La Malfa, cui se ne possono aggiungere molti e altrettanto autorevoli, hanno svolto in epoche e sotto regimi diversi la loro azione talora come funzionari dei ministeri, talora come ministri o sottosegretari, talora alla guida di enti e imprese pubblici, talora alla testa della Banca centrale.

In origine fu Francesco Saverio Nitti

Ad inizio secolo, Francesco Saverio Nitti (1868-1953) dispiegò la sua strategia di riforma del territorio fondata sulla valorizzazione delle risorse idrauliche e forestali ai fini della produzione di energia elettrica e della bonifica agraria. E ancora, nel 1912 costruì – con un funzionario esperto di statistica e proveniente dallo stesso Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Alberto Beneduce – l’Istituto nazionale assicurazioni (INA), compiendo un gesto audace di modernizzazione legislativa in materia sociale, ma anche di soccorso agli investitori attraverso l’accumulazione sicura di risorse finanziarie. Sempre dalla collaborazione tra Nitti e Beneduce nacque un sistema di credito alternativo a quello delle banche miste, perfezionato dallo stesso Beneduce negli anni Venti. Il Crediop, l’Icipu, il Credito navale, enti pubblici ma a giurisprudenza privatistica, responsabili del finanziamento delle opere pubbliche, convogliarono capitali reperiti nel mercato obbligazionario soprattutto verso i gruppi imprenditoriali emergenti, elettrici e chimici.

Il contributo di Donato Menichella e Alberto Beneduce

Le riforme economiche degli anni Trenta rappresentarono una delle più grandi prove di intreccio tra pragmatismo e dedizione allo Stato fornite da due a-fascisti come Donato Menichella (1896-1984) e Alberto Beneduce (1877-1944). I due tecnocrati, incaricati da Benito Mussolini, venivano chiamati a salvare l’intera economia italiana da una situazione gravissima, che vedeva sommarsi le conseguenze della grande crisi e di una decennale catena di salvataggi bancari. Le principali banche e imprese, infatti, erano finite di fatto in mano pubblica per i numerosi interventi del Ministero delle Finanze e della Banca d’Italia. Si doveva comprendere come ridare ossigeno ai gangli produttivi dell’economia del Paese, schiacciati dalle passività e dalla scarsità di capitale finanziario disponibile. Beneduce e Menichella scelsero la nota soluzione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, o IRI, consistente nella gestione pubblica di imprese di diritto privato restituite al mercato azionario nonostante il controllo dello Stato. Il nuovo ente pubblico affidò alle holding di settore la responsabilità privatistica degli investimenti pubblici. L’intervento pubblico dello Stato nell’economia si separò della pubblica amministrazione ordinaria. Questa «strategia della straordinarietà», concepita come strumento transitorio dell’intervento pubblico, era destinata a incidere in maniera strutturale sul sistema politico ed economico italiano.

La sinergia tra politica e competenze nel Dopoguerra

La sinergia tra politica e competenze tornò ad agire nel dopoguerra con la stessa forza espressa nell’età giolittiana. I tecnici Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Pasquale Saraceno, alla testa delle principali istituzioni economiche, l’Iri e la Banca d’Italia, furono i primi interlocutori degli Alleati sin dall’inizio della Liberazione e da essi vennero riconosciuti come embrione della classe dirigente della futura Repubblica Italiana. Menichella, insieme a un liberista come Luigi Einaudi, costruì una «politica di sviluppo» di ampio respiro che trovò i luoghi di irradiazione nella Banca d’Italia e nei governi centristi di Alcide De Gasperi, statista che apprezzava e coinvolgeva i tecnici. Una simile composizione tra tecnica e politica fu fondamentale per sfruttare al meglio le opportunità del Piano Marshall. Sotto la regia della Banca d’Italia, gli aiuti americani vennero prima indirizzati verso il rinnovamento tecnologico del sistema industriale, rendendolo per la prima volta competitivo in alcuni settori di punta; quindi, alla scadenza del Piano Marshall, si immisero nel sistema monetario italiano i dollari ottenuti dalla Banca mondiale per finanziare un piano di sviluppo del Mezzogiorno ancora una volta gestito da un ente autonomo straordinario esterno alla Pubblica amministrazione che avrebbe dovuto esaurire la sua missione con l’attuazione di un programma decennale e aggiuntivo di spesa: la Cassa per il Mezzogiorno. Nei decenni successivi questi esperimenti istituzionali tenderanno a degenerare in spesa clientelare e subire un deficit di progettazione, ma ciò non toglie che per oltre un decennio i risultati furono eccezionali. La politica monetaria della Banca d’Italia riuscì ad alimentare le riserve valutarie italiane; la spesa pubblica poté espandersi senza alimentare il debito con l’estero e produrre inflazione; gli investimenti nelle regioni meridionali produssero un incremento del reddito impensabile, distribuito in maniera più uniforme sull’intero territorio nazionale.

A partire dagli anni Sessanta, il sistema dei partiti prese a scomporsi in correnti che, alla ricerca del consenso popolare, aumentarono la loro sete di finanziamenti. Gli enti pubblici, con la loro autonomia, diventarono fonte inesauribile di risorse per la politica, potendo continuamente ricostituire i loro fondi di dotazione per motivi di “ammortizzazione sociale”. Con la moltiplicazione di enti, incentivi e sgravi per imprese sempre più dipendenti dallo Stato, aumentarono anche i manager di investitura politica, meno dotati di senso delle istituzioni di quanto non lo fosse stato il brain trust fondato da Beneduce e Menichella.

In questo nuovo contesto si era rotta l’osmosi tra i saperi e la politica. Gli enti pubblici si sono moltiplicati e insieme alle correnti dei partiti, soprattutto di quelli governativi, hanno inaugurato una nuova forma di «fratellanza siamese» attivando un meccanismo di investiture e scalate dei gruppi di comando ingarbugliato quanto quello delle nostre banche e imprese prima della nascita dell’Iri. Nella realtà si è trattato di un meccanismo assai più perverso, in quanto fondato sulla collusione tra Stato e capitalismo e destinato a produrre, nelle parole del 1962 di Mattioli, una forma ben più problematica di «catoblepismo», con un effetto devastante proprio sulle istituzioni fondamentali della democrazia, ovvero sui partiti. Si sentiva, inoltre, il peso di un’amministrazione centrale acefala, priva di spirito di corpo, oramai abituata a essere commissariata in parte dall’azione di rappresentanza degli interessi e di cooptazione svolta dai partiti e in parte dalle funzioni manageriali trasferite in capo a enti pubblici e amministrazioni parallele. Nella sua peculiarità statuale, l’Italia aveva rinunciato alla costruzione di una élite amministrativa, ministeriale e coesa, a favore invece di istituzioni speciali, tecnocratiche, autonome e, a partire dagli anni Settanta, delle amministrazioni regionali.

L’onda lunda delle amministrazioni parallele negli anni Novanta

In questa commistione di forze e debolezze, l’onda lunga delle amministrazioni parallele si è spinta fino alle porte del nuovo millennio. Se la stagione delle privatizzazioni degli anni Novanta ha trasformato gli enti in società per azioni, miste o interamente alienate ai privati, e in alcuni casi ha soppresso certe amministrazioni parallele, ciò non significa che la loro influenza sul nostro presente sia venuta meno. Anzi, per molti versi potremmo dire che “l’amministrazione per enti” sia diventata parte della tradizione amministrativa italiana tanto quanto i governi tecnici che oramai caratterizzano la risposta della politica nazionale ai momenti di crisi. Allo stesso tempo si deve riconoscere che con la perdita dell’industria pubblica, della centralità della Banca d’Italia per gli accordi di Maastricht e dei vecchi partiti a causa di Tangentopoli, il Paese ha smarrito gran parte dei filtri funzionali attraverso cui selezionava la propria “nobiltà di Stato”.

Questo excursus storico sull’amministrazione ci conduce al nuovo governo guidato da Mario Draghi e agli echi del nittismo sul presente. Il Presidente del Consiglio ha una carriera che si snoda, oltre che tra le università e le banche private internazionali, tra le tradizionali strutture amministrative, come la direzione generale del Tesoro, e la speciale burocrazia delle banche centrali, prima a Roma e poi a Francoforte. Sarà a questi modelli che probabilmente egli guarderà per gestire il Recovery Fund europeo con la missione di riannodare il filo tra sapere, politica e amministrazione. Come ogni capo dell’esecutivo, infatti, Draghi sarà chiamato a effettuare scelte politiche nonostante la propria caratura di tecnico. Al tempo stesso, però, dovrà scegliere quali funzioni attribuire all’amministrazione centrale dei ministeri e quali alla “burocrazie non burocratiche” degli enti paralleli. In quest’ultimo caso, non stupirebbe la creazione di nuove istituzioni improntate, sul piano dell’organizzazione del personale, al principio nittiano dei “pochi, competenti e ben pagati”, con una missione ad hoc legata ai temi del Recovery Fund. Considerata inoltre la biografia del Presidente Draghi, è facile prevedere che un ruolo centrale sarà svolto dalla dirigenza del Ministero dell’Economia e delle Finanze, dalle grandi società a capitale pubblico e dalla Cassa Depositi e Prestiti. L’integrazione, dunque, tra enti, aziende pubbliche e burocrazia ordinaria tornerà forse più forte, seppure si dovranno valutare le modalità e le forme di questo rapporto.

In definitiva, la capacità di coordinare amministrazioni parallele vecchie e nuove (enti, società, fondazioni) con l’amministrazione ordinaria e gli attori privati ai fini del pieno sfruttamento delle opportunità offerte dal pacchetto europeo sarà la principale sfida istituzionale del nuovo esecutivo. La storia, infatti, può insegnare che nei momenti topici è necessario ricorrere a strumenti speciali e dal carattere tecnocratico. Questa spinta centrifuga, però, deve essere bilanciata dal coordinamento con le tradizionali strutture amministrative. Si potrà avere così una élite amministrativa composita, sia tecnica che generalista, in grado di assicurare che la lezione del passato venga sfruttata al meglio coniugando insieme visione generale e sviluppo particolare.

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