Recovery, debito e il peso sulle finanze pubbliche

Economia
BRUSSELS, BELGIUM - OCTOBER 16: Flags of the European Union fly outside the Berlaymont building of the European Commission where EU and British negotiators met throughout the day one prior to a summit of EU leaders on October 16, 2019 in Brussels, Belgium. The summit, which is scheduled to be held from October 17-18, is the last before the upcoming, current October 31 deadline for the United Kingdom to leave the EU, with or without a Brexit agreement.  (Photo by Sean Gallup/Getty Images)

Il policy brief della School of Government della Luiss a cura del prof. Marcello Messori

In una recente audizione al Senato francese il Presidente della Banque de France, François Villeroy de Galhau, ha sostenuto che l’Italia è uno dei grandi Paesi dell’Unione europea ad aver stanziato il maggior ammontare di fondi pubblici per sostenere l’economia e la società nel corso della pandemia. Secondo la banca centrale francese, a inizio dicembre 2020, l’Italia avrebbe mobilitato risorse pari al 5,9% del Pil a fronte del 4,6% della Francia e del 3,7% della Germania (https://www.banque-france.fr/sites/default/files/media/2021/01/27/presentation du 27 janvier 2021.pdf).

 

Evidenze empiriche analoghe, pur se riferite a un periodo precedente e con riferimento a capitoli di spesa un po’ diversi, sono state presentate in un Policy Brief della Luiss School of European Political Economy elaborando dati prodotti dalla Commissione europea (cfr. M. Buti e M. Messori, “‘Next Generation – EU’: Una guida ragionata”, SEP Policy Brief, maggio 2020, n. 29). Questo tipo di misurazione non è semplice da produrre, dal momento che non basta calcolare il sostegno diretto alle imprese e ai redditi delle famiglie, ma è anche necessario stimare il peso degli interventi indiretti (per esempio, sostegno ai consumi) e delle garanzie di vario tipo.

Eppure, la sostanziale convergenza fra le due stime appena richiamate legittima una prima conclusione: il governo italiano non ha lesinato sull’uso delle finanze pubbliche nazionali per limitare l’impatto della pandemia sull’economia e sulla società. Se ciò è vero, dove è allora finita l’emergenza del “debito pubblico” italiano, di cui abbiamo discusso per anni prima della pandemia?

Perché il debito pubblico non è più un “vincolo” di breve periodo per l’Italia

Il debito pubblico italiano è ancora di dimensioni abnormi. Anzi, il nostro rapporto debito pubblico/Pil è fortemente peggiorato soprattutto a seguito della depressione del primo semestre 2020 e degli incrementi di spesa pubblica sopra ricordati. Esso ha, infatti, registrato sia una drammatica diminuzione del denominatore sia un drastico aumento del numeratore nel tentativo di arginare con risorse pubbliche gli effetti più duri della crisi.

Sotto il profilo della “tenuta” economica e sociale, tale tendenza è stata inevitabile in ragione del duro impatto avuto dalla pandemia in termini di “chiusure” dei processi produttivi e di caduta di una parte dei redditi famigliari e della domanda aggregata del Paese.

Fatto è che, oggi, il rapporto italiano debito pubblico/Pil è stimato attorno al livello record del 160% del Pil che sarà infranto nel corso del 2021; e, secondo alcune recenti previsioni del Ministero dell’Economia (Sole 24 Ore, 23 gennaio), potrà tornare “poco sopra” il dato del 2019, vale a dire attorno al 135% del Pil, non prima del 2031.

 

La conclusione da trarre è che, durante la pandemia, anche Paesi con una capacità fiscale nulla o negativa – come il nostro – hanno potuto aumentare enormemente il rapporto deficit pubblico/Pil (di più di 25 punti percentuali nel caso italiano). L’aspetto cruciale dell’analisi qui proposta è che, nonostante questi forti incrementi, si è verificato un indubbio allentamento del vincolo che, fino a un anno fa, sembrava stringere il rapporto debito pubblico/Pil in Italia, causando scompensi e instabilità macroeconomiche e lambendo problemi di sostenibilità futura. La ragione cruciale di tale allentamento dei vincoli è che, da metà marzo del 2020, la politica monetaria della Banca Centrale Europea (BCE) è diventata ancora più accomodante di quanto già non fosse. Gli aumenti delle emissioni di titoli italiani di debito del periodo marzo 2020 – gennaio 2021 sono stati, di fatto, coperti dagli acquisti della BCE.

Fino a quando i mercati saranno anestetizzati?

L’ultima affermazione merita qualche specificazione così da evitare fraintendimenti. È noto che la BCE non può intervenire sui mercati primari del debito pubblico emesso dai paesi dell’euro area. La banca centrale può, quindi, acquistare solo quei titoli pubblici italiani (o di altri paesi) che sono già detenuti da investitori. Ma allora, se vi è una sufficiente domanda “privata” al momento delle emissioni dei titoli italiani di debito pubblico – e, per di più, a tassi molto bassi (quando non negativi), perché tirare in ballo la BCE? La risposta è che, non solo nell’euro area o in Europa, gli investitori (specie quelli istituzionali e professionali) assomigliano ad acrobati iper-protetti.

Anche se appaiono camminare su una fune sottile sospesa nel vuoto, in realtà gli acquirenti di titoli pubblici non corrono alcun pericolo di breve periodo in quanto hanno, sotto di loro, più che una rete di sicurezza: godono di un comodo strato di materassi, che arriva quasi fino alla fune ed evita loro qualsiasi pericolosa caduta. Essi hanno infatti la sostanziale certezza che, un istante dopo aver acquistato i titoli emessi dal governo italiano o da governi di altri stati membri dell’unione monetaria, potranno rivendere quegli stessi titoli alla BCE sul mercato secondario. Da qui l’attuale calma piatta nei mercati dei titoli pubblici.

 

È bene ribadire il punto: fino a quando la BCE o – per essere precisi – i componenti dell’eurosistema delle Banche centrali manterranno nel loro bilancio l’intero ammontare di titoli acquistati nei mercati secondari, tale debito rimarrà “sterilizzato” nel senso che non sarà nelle mani di investitori di mercato pronti a disfarsene al primo segnale di tensione. Dato che il programma di acquisto dei titoli pubblici da parte dell’eurosistema delle banche centrali dura dal marzo 2015 (con una breve interruzione inferiore all’anno nel corso del 2019), oggi quasi un terzo dello stock italiano di debito pubblico è detenuto dalla BCE (o, per essere più precisi, dalla BCE e – soprattutto – dalla Banca d’Italia quale componente dell’eurosistema). Pertanto, la quota sul Pil del nostro debito pubblico in mano a investitori di mercato si attesta intorno al 115% e non al 160% o più.

 

Il messaggio conclusivo è, allora, che possiamo dormire sonni tranquilli dal momento che la BCE sta monetizzando – di fatto – una parte consistente del debito pubblico dell’euro area? Si tratterebbe di un grave fraintendimento. Al più, si può affermare che la BCE sta monetizzando pro tempore una parte consistente del debito pubblico italiano (e di quello degli altri paesi dell’euro area), così come la Banca centrale statunitense (la FED) o la Banca di Inghilterra (la BOE) stanno facendo operazioni analoghe nei loro mercati finanziari nazionali.

Si tratta di una forma temporanea e indiretta della cosiddetta helicopter money. Data la piena indipendenza della BCE rispetto ai governi degli Stati membri e ai responsabili delle politiche fiscali, nessuno può però escludere che le future scelte di politica monetaria porteranno a una progressiva re-immissione di una quota di quei titoli pubblici dal lato dell’offerta dei mercati finanziari.

Un po’ di ragionamenti noiosi

La domanda di teoria della politica economica, che consegue dal precedente ragionamento e che comincia a serpeggiare nel dibattito fra studiosi e responsabili di politica monetaria, è: fino a quando una Banca centrale con l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi, come la BCE, potrà accumulare stock di debito pubblico “cristallizzando” così una parte del proprio bilancio? È un processo che, almeno in linea di principio, non ha fine o che, viceversa, è destinato a incontrare limiti definibili con minore o maggiore approssimazione?

 

La risposta manualistica, che si insegna agli studenti di secondo anno, è semplice: fino a quando i tassi di inflazione atteso e corrente rimangono inferiori a una prefissata soglia di stabilità che è oggi prossima, ma inferiore, al 2% annuo. Fino a quella soglia la politica monetaria della BCE deve essere espansiva; e, se ha raggiunto il cosiddetto “livello zero” dei tassi di interesse, essa deve utilizzare in forme non-convenzionali sia il canale monetario (acquisto di attività finanziarie contro immissioni di liquidità) sia il canale bancario (rifinanziamenti elastici del settore bancario). In quest’ottica, il recente incremento dei prezzi in Germania non è un segnale molto preoccupante perché appare temporaneo; più preoccupanti sono, invece, gli indicatori che si stanno manifestando negli Sati Uniti (innalzamento della curva dei tassi di interesse di lungo termine) e che tenderanno a propagarsi anche in Europa. Non si tratta, tuttavia, di minacce già consolidate.

 

Vi è una seconda risposta più articolata alle precedenti domande. Tale risposta fa capolino nei resoconti (le cosiddette “minute”) delle periodiche riunioni dell’organo direttivo della BCE e inizia a essere esaminata dai modelli teorici più recenti (fra cui uno in corso di elaborazione alla SEP).

 

Il processo di aumento nella dimensione del bilancio della BCE, che è l’altra faccia del processo di incremento della liquidità immessa nel sistema economico, incontra limiti difficili da determinare con precisione sul piano generale ma facili da descrivere su un piano qualitativo. Questo aumento non può superare quella dimensione di bilancio della BCE che renderebbe problematico il ritorno a una politica monetaria restrittiva, qualora fosse sollecitata da un’accelerazione nella crescita dei prezzi. L’esempio più ovvio riguarda, proprio, la detenzione di titoli del debito pubblico. Se l’entità di questi titoli nel bilancio della BCE diventasse così ingente da creare un’ingovernabile instabilità nel sistema economico e finanziario a fronte della prospettata cessione di una loro quota per esigenze di politica monetaria, ciò implicherebbe che tale politica avrebbe perso ogni simmetria fra espansione e restrizione e la BCE avrebbe smarrito la sua indipendenza. Si tratta, quindi, di un’entità che non può essere neppure approssimata.

Come prepararsi al ritorno dell’emergenza debito

Per ora siamo nel mondo della teoria che, come è facile immaginare, cerca di elaborare un’analisi più precisa del fenomeno. Una promettente ipotesi di ricerca è che l’entità dei titoli pubblici nel bilancio della BCE (o di altra banca centrale), sopra indicata e definibile come “punto di rottura”, possa portare all’inefficacia dei canali di immissione della liquidità nel sistema economico (i canali monetari e bancari di trasmissione sopra menzionati). Qui non è certo il caso di addentrarsi in problemi tanto complessi. Basti notare che, se il “punto di rottura” sopra evocato diventasse un vincolo effettivo per la BCE, allora gli eccessi nazionali di debito pubblico tornerebbero eccome a mordere.

 

L’inedita convergenza ultra-espansiva fra le politiche fiscali, accentrate (si pensi a Next Generation – Eu) e nazionali, e la politica monetaria rischierebbe di venire meno; e si romperebbe, così, l’incantesimo di una politica monetaria della BCE che ha reso sostenibili politiche nazionali ultra-espansive anche da parte di paesi privi di capacità fiscali. In un simile scenario, non si tornerebbe al “mondo di prima”. Oltre alla drammatica situazione dell’Italia, vari altri paesi dell’euro area (innanzitutto, la Francia) potrebbero avere debiti pubblici difficilmente sostenibili senza radicali aggiustamenti. Il “mondo di prima” sarebbe, cioè, assai peggiore che nel passato.

 

Quando nel febbraio 2020 la pandemia da Covid-19 (LO SPECIALE) ha travolto l’Italia, sarebbe stato socialmente e tecnicamente difficile tamponare l’emergenza e salvaguardare la “selettività” della spesa pubblica. A un anno di distanza, preso atto che molti stanziamenti sono stati troppo indiscriminati e troppo poco efficaci, diventa tuttavia doveroso “selezionare” la spesa pubblica tanto negli obiettivi quanto nelle modalità di utilizzo.

Si tratta, in particolare, di accompagnare l’uscita dall’emergenza mediante un’efficace ed efficiente strategia di sviluppo sostenibile. Del resto, se esistesse davvero un “punto di rottura” nell’entità e nella composizione del bilancio della BCE, nel medio termine non vi sarebbe scelta: il ritorno a un “mondo di prima”, assai più squilibrato e minaccioso, imporrebbe drastiche riduzioni del rapporto debito pubblico/Pil che, per essere gestibili economicamente e socialmente, richiederebbero un ritorno alla crescita.

 

Le istituzioni europee stanno offrendo, specie a paesi come l’Italia, un’opportunità straordinaria. Si tratta del già citato Next Generation Eu e, in particolare, del suo programma più robusto: il cosiddetto Recovery and Resilience Facility (RRF). Fra il 2021 e il 2027, l’Italia deve dimostrarsi in grado di progettare e spendere le ingenti risorse offerte dal RRF. Solo in quel caso diventerà possibile trasformare un meccanismo di condivisione dei rischi, che è oggi una tantum perché imposto dalla pandemia, in uno strumento ricorrente e – come tale – essenziale per il graduale accentramento della politica fiscale nell’Unione europea. Una volta collocata su un sentiero di sviluppo sostenibile, l’Italia sarebbe nelle condizioni di concordare con le istituzioni europee un progressivo rientro dal proprio abnorme debito pubblico. Inoltre l’Unione europea, che ha un debito comune trascurabile e – dunque – ampi margini di capacità fiscale enorme, potrebbe trasformare l’ancor più minaccioso “mondo di prima” in un ambiente economico e sociale molto più ospitale di come ce lo ricordiamo.

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