Bolla cinese, interviene il governo per arginare il contagio

Economia

Federico Leardini

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Il crollo della Borsa asiatica, iniziato un mese fa, finora ha abbassato di circa il 30% il valore dei listini. Le istituzioni intervengono per arginare il tracollo e i titoli recuperano. Ma resta alta la pressione sul mercato e persistono i timori

La bolla cinese, che oggi spaventa i mercati globali inizia, a gonfiarsi un anno fa, nel giugno del 2014. Per circa 12 mesi i listini hanno accumulato valore, arrivando a duplicare la capitalizzazione nel caso della borsa di Shanghai, e costruendo enormi patrimoni privati senza apparentemente suscitare l’attenzione delle autorità di controllo. Poi, lo scoppio e da un mese circa solo vendite. Con passivi superiori al 30% per i listini principali e le istituzioni cinesi che cercano in ogni modo di arginare il tracollo.

Gli ultimi interventi, questa mattina: il divieto di vendere per chi ha partecipazioni azionarie sopra il 5% (per prevenire l’innesco del panico) e la promessa di massicce iniezioni di liquidità (per alimentare la ripresa del mercato). Insomma, un “whatever it takes” simile a quello annunciato da Mario Draghi per arginare le turbolenze sui titoli di stato europei, in salsa cinese. Gli effetti, in termini puramente percentuali, sono stati evidenti: Shanghai ha archiviato la miglior seduta dal 2009, con guadagni vicini al 6%, ma i dubbi sulla sostenibilità di questa ripartenza e sulla pericolosità della bolla cinese rimangono. E non solo per i mercati, ancora in preda all’emozionalità e alla volatilità come le viste oggi di circa 10 punti percentuali, dal -4% di apertura al +6% degli ultimi scambi di Shanghai, confermano. Ci sono almeno tre declinazioni potenziali di questo rischio bolla cinese.

Il problema per i cinesi – La prima, sull’economia cinese. L’economia reale di Pechino sta “normalizzando” i suoi ritmi di crescita, passando dal 10% di crescita del Pil del 2011, al 7,5% del 2013 al 6,5% dei prossimi anni. Se rallentasse il mercato azionario, le stesse aziende e i grandi fondi rischierebbero un contraccolpo pesante, che si potrebbe riflettere in mancati investimenti e un ulteriore rallentamento della crescita. E c’è un potenziale riflesso anche per i singoli cittadini: la bolla cinese ricorda quella del .com che l’occidente ha vissuto nel 2000. Un mercato in costante crescita che sembrava garantire ricchezze facili anche ai piccoli investitori, affascinati dall’aumento della capacità di spesa offerta dalla crescita dell’economia reale, puntavano sull’azionario per moltiplicare il loro benessere. Finché la bolla scoppia e la gara è a non rimanere col cerino in mano.

Il problema per le aziende che puntano sulla Cina – Ma il timore principale è il contagio che questo fenomeno può avere sui mercati occidentali. In primis per le aziende occidentali che guardano al mercato cinese come sbocco per i propri prodotti. E qui il riflesso è stato palese nella giornata di ieri: I titoli del lusso hanno accusato il colpo e, soprattutto quelli più esposti alle vendite a Pechino s’interrogano sul potenziale di crescita reale dei consumi nei prossimi mesi. Nei numeri: Salvatore Ferragamo, che vede il 36% dei ricavi venire dall’Asia ha perso il 2% della capitalizzazione in poche ore e peggio ha fatto Tod’s, che trae dalla Cina il 21% del fatturato e nella sola giornata di ieri ha ceduto il 4% circa del valore di borsa.

Il problema per l’economia globale – Sul fronte azionario è interessante guardare alle performance dei grandi titoli cinesi quotati a Wall Street: Alibaba, icona della nuova industria cinese nel mondo, da fine maggio ha perso il 17% del valore, scendendo ai prezzi più bassi dalla quotazione del settembre 2014. E ancora peggio fa 500.com, provider di servizi online di gioco d’azzardo che in un mese ha perso il 40%, fra i peggiori dell’intero mercato statunitense. Senza dimenticare gli importanti investimenti che la Banca centrale cinese ha effettuato nel mondo, negli ultimi mesi. People’s Bank of China è diventata in pochi mesi l’8° investitore di Piazza Affari con partecipazioni sopra il 2% in gruppi come Eni, Enel, Fca, Generali, Telecom, Intesa Sanpaolo e Unicredit, sostenendo le quotazioni dei titoli e garantendo importanti flussi di cassa alle aziende. Potranno le aziende occidentali, se l’economia cinese e la finanza di Pechino rallentasse, contare ancora su questo afflusso di denaro?

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