“Nonostante la crisi, nel 2013 in nessun paese europeo ci sono stati meno lavoratori occupati rispetto a dieci anni prima, a eccezione del nostro”: lo scrive Romano Benini in un saggio Donzelli, che prova a tracciare delle vie d’uscita. ESTRATTO
di Romano Benini
Lo stato di salute del lavoro è collegato alle altre condizioni di salute dell’«organismo Italia», ma non rappresenta necessariamente un legame automatico, in quanto i meccanismi della finanzia, dell’economia e del lavoro sono sempre meno connessi.
Tuttavia, se valutiamo quanto è accaduto in Italia in questi anni, è evidente come il crollo della produzione sia stato contestuale a un crollo del lavoro. Sono tuttavia utili due precisazioni, che fanno cogliere alcuni aspetti del perché il modello economico e sociale italiano si sia dimostrato così debole e privo di difese nella crisi.
Il crollo del lavoro e della produzione non è conseguente a un crollo della ricchezza e del reddito disponibile: il patrimonio privato degli italiani cala ed è compromesso dal crollo del lavoro e della produzione, ma in modo meno che proporzionale. Il recupero della borsa e delle transazioni finanziarie avvenuto dopo il 2011 ha portato persino a un miglioramento della situazione per alcuni ceti, e i più ricchi, come abbiamo visto, sono in Italia ancora più ricchi proprio con la crisi. Il dato è chiaro e significativo: quasi la metà della ricchezza nazionale (il 46%) appartiene a non più del 10% degli italiani.
Questo si deve alla natura della ricchezza italiana di questi anni: appartiene a ceti che hanno accumulato capitali che ora gestiscono attraverso la rendita finanziaria o a famiglie che godono di rendite di attività economiche tenute fuori dal mercato e dalle sue regole.
Sono davvero poche invece le imprese che operano sul mercato e che in questi anni sono riuscite ad assumere e a migliorare il fatturato. Questa logica è destinata in ogni caso a venir meno con gli anni, se non c’è una drastica inversione di rotta nella separazione in atto tra ricchezza e lavoro, ma è comunque un aspetto importante.
La seconda considerazione è che l’Italia è storicamente un paese con meno persone al lavoro rispetto alla media europea e persino alla media dei paesi Ocse. La presenza del lavoro nero e irregolare, insieme ad altri fenomeni, anche culturali come la minore disponibilità delle donne al lavoro (che ha determinato con il tempo la presenza di maggiori ostacoli per il lavoro femminile), la minore età del pensionamento e il ritardo con cui i giovani scolarizzati entrano nel mercato del lavoro, ha reso l’Italia un paese in cui meno persone lavorano rispetto al resto d’Europa.
In media l’Italia ha un 5% in meno di tasso di occupazione (la percentuale delle persone che lavorano rispetto alla popolazione in età da lavoro) nel confronto con gli altri paesi avanzati.
Si tratta di un dato significativo, che dal punto di vista economico equivale a più di un milione in meno di persone al lavoro, quindi di individui che consumano, pagano le tasse, versano i contributi e soprattutto di persone autonome finanziariamente. Dal punto di vista sociale si tratta di una minore centralità del lavoro nella società italiana e nella Repubblica «fondata sul lavoro» rispetto alle altre culture nazionali europee. Questo fenomeno non è figlio della crisi, ma della cultura italiana del Novecento ed è del tutto trascurato nel dibattito politico e sindacale.
Il modello produttivo industriale, entrato in crisi già negli anni settanta, ha portato a una progressiva perdita di valore del lavoro nelle priorità degli italiani, soprattutto nelle generazioni più recenti: un lavoro visto esclusivamente come mezzo per migliorare la propria condizione economica e non per la realizzazione di sé non può che essere debole rispetto agli altri mezzi che sono utili per diventare ricchi, leciti o meno leciti. Questo fenomeno si è attenuato e modificato con la leggera ripresa che è in Italia avvenuta nel 1997: con l’entrata del paese nell’euro e un maggiore controllo del debito si è avviata una fase di aumento dell’occupazione, che è proseguita fino all’anno che ha preceduto la crisi.
Si è trattato fondamentalmente tuttavia di un aumento quantitativo e non qualitativo: il lavoro creato negli anni scorsi è stato legato non solo soprattutto a rapporti di lavoro precari, ma anche a una presenza e richiesta di professionalità e competenze medio-alte inferiore alla media europea, a dimostrazione della persistenza di un modello di sviluppo che non era al passo con i tempi e poco capace di cogliere le opportunità dell’innovazione in corso nelle democrazie avanzate. Il crollo dell’occupazione avvenuto a seguito della crisi è stato clamoroso, ma è intervenuto in due tempi e luoghi diversi: la prima ondata ha riguardato i lavoratori adulti licenziati ed espulsi dalle imprese manifatturiere soprattutto del Nord ed è avvenuta nel 2009, la seconda ondata ha riguardato le mancate proroghe dei contratti a termine e l’avvio di nuove assunzioni e ha riguardato tutto il paese, colpendo soprattutto i giovani.
Una conseguenza collaterale è stata la seguente: allo scoppio della crisi tutte le risorse disponibili sono state utilizzate per il sostegno ai lavoratori «in esubero», posti nel sistema degli ammortizzatori sociali e delle casse integrazioni e il più delle volte non licenziati. A questi lavoratori sono stati destinati ben nove miliardi di euro, utilizzando anche le risorse dell’Unione europea per il lavoro, destinate non a coprire la spesa dell’integrazione al reddito, ma alle attività obbligatorie per poter trovare un nuovo lavoro.
Si è trattato di interventi che hanno riguardato lavoratori in genere maschi, adulti, sindacalizzati e del Nord Italia. A sei anni dall’inizio della crisi, il livello dell’occupazione adulta in Italia per questo non è calato, in alcuni territori e settori è persino aumentato. Solo successivamente è esplosa la crisi del lavoro dei giovani e delle donne, più coinvolti nel terziario e nei servizi, che sono entrati in crisi solo a seguito della crisi finanziaria e del manifatturiero. Questi lavoratori in molti casi erano assunti con contratti a termine, atipici e con partite iva, privi di tutele alla scadenza. Contestualmente le classi di giovani uscite dalla scuola si sono trovate prive di opportunità di tirocinio o di apprendistato, anche per via del fatto che le aziende manifatturiere che solitamente sono interessate all’apprendistato si sono trovate in gravi difficoltà. Nel momento in cui contestualmente sono venute meno le opportunità per i giovani trentenni con contratti flessibili e sono mancante quelle per i ventenni usciti dalla scuola, intorno al 2010, erano tuttavia venute meno anche le risorse destinate a migliorare i servizi e le politiche destinate a sostenere il mercato del lavoro dei giovani, in quanto facevano parte dei nove miliardi di euro destinati ai loro genitori o fratelli maggiori «in esubero» o in cassa integrazione.
Mentre tutta Europa dal 2009 ha investito massicciamente sui servizi per il lavoro e sulle politiche attive per tutti i disoccupati l’Italia ha fatto il contrario: ha sostanzialmente speso per politiche passive (erogazione dell’integrazione al reddito) per i lavoratori in cassa integrazione o mobilità. La coperta era stretta e la scelta è andata a tutela dei lavoratori del modello industriale moribondo e non di quelli del modello postindustriale nascente.
È stata anche una scelta sociale: sono stati tutelati i lavoratori che erano più tutelati, come accade sempre nelle scelte delle politiche del lavoro italiane. Il risultato è che l’Italia ha triplicato la disoccupazione giovanile, arrivata nel 2014 al 38%, con dati al livello di quella spagnola, e che è il paese in Europa con la presenza di maggiore precarietà tra gli under quaranta.
Si tratta proprio delle generazioni che dovrebbero costruire il futuro. I dati numerici confermano queste valutazioni in modo puntuale: l’Italia nel 2014 ha un minor numero di occupati rispetto a dieci anni prima, un più alto tasso di disoccupazione e un minore tasso di occupazione. Potrebbe essere comodo spiegare che questo è dovuto alla crisi e agli effetti di una situazione difficile, ma che l’economia può affrontare, e che questo è accaduto e accade in tutta Europa. Non è così e in generale dobbiamo metterci in guardia rispetto a questo luogo comune, usato in questi anni di declino soprattutto dal quel personale politico «a basso merito» che governa le istituzioni italiane ai diversi livelli: la situazione tra i paesi europei e le democrazie avanzate prima, durante e dopo la crisi è e resta molto diversa, così come è molto diversa persino la situazione tra le regioni e i territori europei e italiani. Considerare sbrigativamente che quanto è accaduto e sta accadendo avvenga comunque e dovunque significa fare in modo che questo continui ad accadere: è solo un alibi comodo per non scegliere e non decidere.
Sul lavoro, nonostante la crisi, in nessun paese europeo nel 2013 ci sono stati meno lavoratori occupati rispetto a dieci anni prima, nemmeno in Spagna, paese con tanti disoccupati, ma che ha un tasso di occupazione migliore di quello italiano (la percentuale di persone tra i 15 e i 64 anni che hanno un lavoro regolare in Spagna è di poco superiore a quella italiana). Questo non significa sminuire la crescita della precarietà giovanile in Europa negli anni della crisi, quantomeno a partire dal 2010, persino la Germania ha un’occupazione che tiene grazie al fenomeno dei «mini-jobs», le attività a basso reddito, esentasse e precarie, diffuse soprattutto nel commercio, che impiegano milioni di giovani tedeschi con circa 500 euro al mese di salario.
Si tratta di un impiego che coinvolge più di sette milioni di tedeschi, soprattutto donne e che contribuisce all’aumento dell’occupazione in Germania attraverso una forma di flessibilità spinta, a basso reddito e quasi gratuita per le imprese. Tuttavia anche in Italia i rapporti di lavoro a termine rappresentano dal 2007 la forma principale di accesso al lavoro, dalla crisi più dell’80% delle nuove assunzioni avvengono in questo modo, ma nemmeno la precarietà diffusa aumenta in questi anni il saldo occupazionale italiano. Solo l’Italia ha infatti tra i paesi europei un saldo negativo tra il 2003 e il 2013: questo si spiega per la «crisi di sistema» che riguarda il paese e per il maggiore impatto della crisi su un sistema che aveva ormai i fondamentali indeboliti dalla presenza di una economia basata sul mantenimento delle rendite fuori mercato e non sulla creazione di nuove opportunità sul mercato. Se questa considerazione è fondata deve valere anche per altri fattori chiave, oltre a quelli che riguardano il lavoro: infatti l’Italia è tra i pochi paesi occidentali in cui nel 2013, rispetto a dieci anni prima, calano i valori del prodotto interno lordo, i consumi finali, la spesa per le famiglie, mentre sono aumentate la spesa della pubblica amministrazione e le importazioni. La considerazione quindi è fondata.
© 2014 Donzelli editore, Roma
Tratto da Romano Benini, Nella tela del ragno, Donzelli editore, pp. 368, euro 21,50
Romano Benini, direttore del master in Management dei servizi per il lavoro della Link Campus University di Roma, e consulente delle maggiori istituzioni pubbliche e agenzie per il lavoro italiane, ha coordinato numerosi progetti europei per lo sviluppo occupazionale. Pubblicista, cura la rivista online «workmag.it». Collabora con la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro e si occupa di Cna Impresasensibile, associazione di promozione sociale della Confederazione nazionale dell’artigianato.
Lo stato di salute del lavoro è collegato alle altre condizioni di salute dell’«organismo Italia», ma non rappresenta necessariamente un legame automatico, in quanto i meccanismi della finanzia, dell’economia e del lavoro sono sempre meno connessi.
Tuttavia, se valutiamo quanto è accaduto in Italia in questi anni, è evidente come il crollo della produzione sia stato contestuale a un crollo del lavoro. Sono tuttavia utili due precisazioni, che fanno cogliere alcuni aspetti del perché il modello economico e sociale italiano si sia dimostrato così debole e privo di difese nella crisi.
Il crollo del lavoro e della produzione non è conseguente a un crollo della ricchezza e del reddito disponibile: il patrimonio privato degli italiani cala ed è compromesso dal crollo del lavoro e della produzione, ma in modo meno che proporzionale. Il recupero della borsa e delle transazioni finanziarie avvenuto dopo il 2011 ha portato persino a un miglioramento della situazione per alcuni ceti, e i più ricchi, come abbiamo visto, sono in Italia ancora più ricchi proprio con la crisi. Il dato è chiaro e significativo: quasi la metà della ricchezza nazionale (il 46%) appartiene a non più del 10% degli italiani.
Questo si deve alla natura della ricchezza italiana di questi anni: appartiene a ceti che hanno accumulato capitali che ora gestiscono attraverso la rendita finanziaria o a famiglie che godono di rendite di attività economiche tenute fuori dal mercato e dalle sue regole.
Sono davvero poche invece le imprese che operano sul mercato e che in questi anni sono riuscite ad assumere e a migliorare il fatturato. Questa logica è destinata in ogni caso a venir meno con gli anni, se non c’è una drastica inversione di rotta nella separazione in atto tra ricchezza e lavoro, ma è comunque un aspetto importante.
La seconda considerazione è che l’Italia è storicamente un paese con meno persone al lavoro rispetto alla media europea e persino alla media dei paesi Ocse. La presenza del lavoro nero e irregolare, insieme ad altri fenomeni, anche culturali come la minore disponibilità delle donne al lavoro (che ha determinato con il tempo la presenza di maggiori ostacoli per il lavoro femminile), la minore età del pensionamento e il ritardo con cui i giovani scolarizzati entrano nel mercato del lavoro, ha reso l’Italia un paese in cui meno persone lavorano rispetto al resto d’Europa.
In media l’Italia ha un 5% in meno di tasso di occupazione (la percentuale delle persone che lavorano rispetto alla popolazione in età da lavoro) nel confronto con gli altri paesi avanzati.
Si tratta di un dato significativo, che dal punto di vista economico equivale a più di un milione in meno di persone al lavoro, quindi di individui che consumano, pagano le tasse, versano i contributi e soprattutto di persone autonome finanziariamente. Dal punto di vista sociale si tratta di una minore centralità del lavoro nella società italiana e nella Repubblica «fondata sul lavoro» rispetto alle altre culture nazionali europee. Questo fenomeno non è figlio della crisi, ma della cultura italiana del Novecento ed è del tutto trascurato nel dibattito politico e sindacale.
Il modello produttivo industriale, entrato in crisi già negli anni settanta, ha portato a una progressiva perdita di valore del lavoro nelle priorità degli italiani, soprattutto nelle generazioni più recenti: un lavoro visto esclusivamente come mezzo per migliorare la propria condizione economica e non per la realizzazione di sé non può che essere debole rispetto agli altri mezzi che sono utili per diventare ricchi, leciti o meno leciti. Questo fenomeno si è attenuato e modificato con la leggera ripresa che è in Italia avvenuta nel 1997: con l’entrata del paese nell’euro e un maggiore controllo del debito si è avviata una fase di aumento dell’occupazione, che è proseguita fino all’anno che ha preceduto la crisi.
Si è trattato fondamentalmente tuttavia di un aumento quantitativo e non qualitativo: il lavoro creato negli anni scorsi è stato legato non solo soprattutto a rapporti di lavoro precari, ma anche a una presenza e richiesta di professionalità e competenze medio-alte inferiore alla media europea, a dimostrazione della persistenza di un modello di sviluppo che non era al passo con i tempi e poco capace di cogliere le opportunità dell’innovazione in corso nelle democrazie avanzate. Il crollo dell’occupazione avvenuto a seguito della crisi è stato clamoroso, ma è intervenuto in due tempi e luoghi diversi: la prima ondata ha riguardato i lavoratori adulti licenziati ed espulsi dalle imprese manifatturiere soprattutto del Nord ed è avvenuta nel 2009, la seconda ondata ha riguardato le mancate proroghe dei contratti a termine e l’avvio di nuove assunzioni e ha riguardato tutto il paese, colpendo soprattutto i giovani.
Una conseguenza collaterale è stata la seguente: allo scoppio della crisi tutte le risorse disponibili sono state utilizzate per il sostegno ai lavoratori «in esubero», posti nel sistema degli ammortizzatori sociali e delle casse integrazioni e il più delle volte non licenziati. A questi lavoratori sono stati destinati ben nove miliardi di euro, utilizzando anche le risorse dell’Unione europea per il lavoro, destinate non a coprire la spesa dell’integrazione al reddito, ma alle attività obbligatorie per poter trovare un nuovo lavoro.
Si è trattato di interventi che hanno riguardato lavoratori in genere maschi, adulti, sindacalizzati e del Nord Italia. A sei anni dall’inizio della crisi, il livello dell’occupazione adulta in Italia per questo non è calato, in alcuni territori e settori è persino aumentato. Solo successivamente è esplosa la crisi del lavoro dei giovani e delle donne, più coinvolti nel terziario e nei servizi, che sono entrati in crisi solo a seguito della crisi finanziaria e del manifatturiero. Questi lavoratori in molti casi erano assunti con contratti a termine, atipici e con partite iva, privi di tutele alla scadenza. Contestualmente le classi di giovani uscite dalla scuola si sono trovate prive di opportunità di tirocinio o di apprendistato, anche per via del fatto che le aziende manifatturiere che solitamente sono interessate all’apprendistato si sono trovate in gravi difficoltà. Nel momento in cui contestualmente sono venute meno le opportunità per i giovani trentenni con contratti flessibili e sono mancante quelle per i ventenni usciti dalla scuola, intorno al 2010, erano tuttavia venute meno anche le risorse destinate a migliorare i servizi e le politiche destinate a sostenere il mercato del lavoro dei giovani, in quanto facevano parte dei nove miliardi di euro destinati ai loro genitori o fratelli maggiori «in esubero» o in cassa integrazione.
Mentre tutta Europa dal 2009 ha investito massicciamente sui servizi per il lavoro e sulle politiche attive per tutti i disoccupati l’Italia ha fatto il contrario: ha sostanzialmente speso per politiche passive (erogazione dell’integrazione al reddito) per i lavoratori in cassa integrazione o mobilità. La coperta era stretta e la scelta è andata a tutela dei lavoratori del modello industriale moribondo e non di quelli del modello postindustriale nascente.
È stata anche una scelta sociale: sono stati tutelati i lavoratori che erano più tutelati, come accade sempre nelle scelte delle politiche del lavoro italiane. Il risultato è che l’Italia ha triplicato la disoccupazione giovanile, arrivata nel 2014 al 38%, con dati al livello di quella spagnola, e che è il paese in Europa con la presenza di maggiore precarietà tra gli under quaranta.
Si tratta proprio delle generazioni che dovrebbero costruire il futuro. I dati numerici confermano queste valutazioni in modo puntuale: l’Italia nel 2014 ha un minor numero di occupati rispetto a dieci anni prima, un più alto tasso di disoccupazione e un minore tasso di occupazione. Potrebbe essere comodo spiegare che questo è dovuto alla crisi e agli effetti di una situazione difficile, ma che l’economia può affrontare, e che questo è accaduto e accade in tutta Europa. Non è così e in generale dobbiamo metterci in guardia rispetto a questo luogo comune, usato in questi anni di declino soprattutto dal quel personale politico «a basso merito» che governa le istituzioni italiane ai diversi livelli: la situazione tra i paesi europei e le democrazie avanzate prima, durante e dopo la crisi è e resta molto diversa, così come è molto diversa persino la situazione tra le regioni e i territori europei e italiani. Considerare sbrigativamente che quanto è accaduto e sta accadendo avvenga comunque e dovunque significa fare in modo che questo continui ad accadere: è solo un alibi comodo per non scegliere e non decidere.
Sul lavoro, nonostante la crisi, in nessun paese europeo nel 2013 ci sono stati meno lavoratori occupati rispetto a dieci anni prima, nemmeno in Spagna, paese con tanti disoccupati, ma che ha un tasso di occupazione migliore di quello italiano (la percentuale di persone tra i 15 e i 64 anni che hanno un lavoro regolare in Spagna è di poco superiore a quella italiana). Questo non significa sminuire la crescita della precarietà giovanile in Europa negli anni della crisi, quantomeno a partire dal 2010, persino la Germania ha un’occupazione che tiene grazie al fenomeno dei «mini-jobs», le attività a basso reddito, esentasse e precarie, diffuse soprattutto nel commercio, che impiegano milioni di giovani tedeschi con circa 500 euro al mese di salario.
Si tratta di un impiego che coinvolge più di sette milioni di tedeschi, soprattutto donne e che contribuisce all’aumento dell’occupazione in Germania attraverso una forma di flessibilità spinta, a basso reddito e quasi gratuita per le imprese. Tuttavia anche in Italia i rapporti di lavoro a termine rappresentano dal 2007 la forma principale di accesso al lavoro, dalla crisi più dell’80% delle nuove assunzioni avvengono in questo modo, ma nemmeno la precarietà diffusa aumenta in questi anni il saldo occupazionale italiano. Solo l’Italia ha infatti tra i paesi europei un saldo negativo tra il 2003 e il 2013: questo si spiega per la «crisi di sistema» che riguarda il paese e per il maggiore impatto della crisi su un sistema che aveva ormai i fondamentali indeboliti dalla presenza di una economia basata sul mantenimento delle rendite fuori mercato e non sulla creazione di nuove opportunità sul mercato. Se questa considerazione è fondata deve valere anche per altri fattori chiave, oltre a quelli che riguardano il lavoro: infatti l’Italia è tra i pochi paesi occidentali in cui nel 2013, rispetto a dieci anni prima, calano i valori del prodotto interno lordo, i consumi finali, la spesa per le famiglie, mentre sono aumentate la spesa della pubblica amministrazione e le importazioni. La considerazione quindi è fondata.
© 2014 Donzelli editore, Roma
Tratto da Romano Benini, Nella tela del ragno, Donzelli editore, pp. 368, euro 21,50
Romano Benini, direttore del master in Management dei servizi per il lavoro della Link Campus University di Roma, e consulente delle maggiori istituzioni pubbliche e agenzie per il lavoro italiane, ha coordinato numerosi progetti europei per lo sviluppo occupazionale. Pubblicista, cura la rivista online «workmag.it». Collabora con la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro e si occupa di Cna Impresasensibile, associazione di promozione sociale della Confederazione nazionale dell’artigianato.