Per anni il motore di ricerca è stato sinonimo di gratis. Ma alcune mosse compiute nelle ultime settimana fanno pensare ad un'inversione di tendenza. Da YouTube a Play Music, ecco le ultime novità su abbonamento
di Raffaele Mastrolonardo
9,99 dollari al mese (7,99 per chi decide di sottoscrivere entro giugno) e nessuna opzione gratuita. Google Play Music All Access, il nuovo servizio di streaming musicale del motore di ricerca, è ormai realtà e ha pure un prezzo. Se sarà quello giusto lo decideranno gli utenti, ma una cosa l'ha già confermata: Google non ha più remore a chiedere soldi per i servizi che offre. Pochi giorni prima, all'inizio di maggio, anche YouTube, da sempre bastione del contenuto gratis, ha infatti cominciato a flirtare con le sottoscrizioni lanciando una serie di canali che possono essere visti solo da chi paga. Anche qui la riuscita dell'iniziativa è tutta da verificare, ma questi due eventi ravvicinati rappresentano una palese rottura con la tradizione: per anni, salvo rarissime eccezioni, gli unici prodotti per i quali il motore di ricerca chiedeva di mettere mano al portafoglio erano quelli rivolti alla clientela business (come le versioni premium dei Google Docs, per esempio), mentre oggi si rivolge direttamente ai consumatori. Per il resto la filosofia di Mountain View era quella di dare gratis ciò che altri si facevano pagare. A coprire i costi ci avrebbe pensato, e in gran parte ci pensa ancora, la pubblicità. Ma, evidentemente, i tempi cambiano.
Google vs Spotify – Già, la Rete non è più quella di una volta. E nell'era delle app e degli app store (e il motore di ricerca, come è noto, ha il suo), chiedere soldi evidentemente non è più tabù, anche se ti chiami Google. Dopo tutto, anche un progetto come Glass prevede la vendita al pubblico. Ma lì si tratta di hardware, così come sono hardware i dispositivi della serie Nexus, e fa meno effetto. Invece, nel caso della musica, almeno in parte (il servizio, infatti, può essere usato anche su dispositivi mobili), siamo sul Web, vale a dire, in casa Google. Nello specifico, con il canone mensile – per ora attivo solo negli Stati Uniti - si potrà accedere a un catalogo di oltre 18 milioni di brani da ascoltare in streaming. Avrà successo? Alcuni ne dubitano. Qualche recensore l’ha già bollato come complessivamente inferiore ai rivali: “Un servizio come Spotify risulta decisamente superiore”, ha scritto Time. Mentre il magazine online Cnet è stato anche più duro: “Al momento, Spotify offre semplicemente un più ampio supporto di sistemi operativi e hardware, più flessibilità sul tipo di piano per cui paghi (inclusa una versione gratuita sostenuta dalla pubblicità) e offre più modi per condividere la musica che ami con le persone con cui sei connesso attraverso Twitter, Facebook, Tumblr, Last.fm e pure una semplice email”.
Video a pagamento – Comunque vada, la mossa di Google nel campo dell'intrattenimento musicale non è isolata. I canali a pagamento lanciati da YouTube qualche settimana fa sono lì a dimostrarlo: 54 in tutto, con prezzi che partono da 99 centesimi di dollaro al mese. Come ha spiegato il Wall Street Journal, si tratta di “una nuova potenziale fonte di introiti per YouTube e i migliaia di partner che producono contenuti”. Ai produttori andrà oltre la metà di quanto incassato dagli abbonamenti. La decisione – che per ora è rivolta solo agli utenti americani - aumenta l'offerta a pagamento della piattaforma che già mette a disposizione, in misura molto limitata, video in vendita o affitto (per prezzi che vanno da 1,99 a 14,99 dollari). Fino ad ora la principale forma di finanziamento per chi offriva i propri contenuti sul servizio video di Google era la cara, vecchia pubblicità. Resta il dubbio – sottolineato anche dal quotidiano americano - se gli utenti, che si sono abituati al consumo gratuito, passeranno a questa nuova modalità di fruizione che prevede l'esborso di denaro attraverso carta di credito. Di certo a Mountain View ci sperano e nell'ultimo anno e mezzo hanno investito 200 milioni di dollari nella creazione di contenuti di qualità.
Pubblicità sovrana – Insomma, musica, video, app o occhiali tecnologici l'impressione è che Google stia provando a differenziare le proprie fonti di entrata. Anche se l'impresa non è facile. La stragrande maggioranza dei suoi introiti derivano comunque dalla pubblicità. Nell'ultimo trimestre, per esempio, l'azienda americana ha denunciato un fatturato di13 miliardi e 969 mila dollari. Di questi il 92% sono arrivati dalla réclame e solo l'8% da altre fonti. Se sembra poco – e in percentuale lo è – va però notato che la quota è raddoppiata rispetto all'anno precedente quando era appena del 4%. Dunque, i progressi ci sono, anche se la strada, dicono i numeri, resta lunga.
9,99 dollari al mese (7,99 per chi decide di sottoscrivere entro giugno) e nessuna opzione gratuita. Google Play Music All Access, il nuovo servizio di streaming musicale del motore di ricerca, è ormai realtà e ha pure un prezzo. Se sarà quello giusto lo decideranno gli utenti, ma una cosa l'ha già confermata: Google non ha più remore a chiedere soldi per i servizi che offre. Pochi giorni prima, all'inizio di maggio, anche YouTube, da sempre bastione del contenuto gratis, ha infatti cominciato a flirtare con le sottoscrizioni lanciando una serie di canali che possono essere visti solo da chi paga. Anche qui la riuscita dell'iniziativa è tutta da verificare, ma questi due eventi ravvicinati rappresentano una palese rottura con la tradizione: per anni, salvo rarissime eccezioni, gli unici prodotti per i quali il motore di ricerca chiedeva di mettere mano al portafoglio erano quelli rivolti alla clientela business (come le versioni premium dei Google Docs, per esempio), mentre oggi si rivolge direttamente ai consumatori. Per il resto la filosofia di Mountain View era quella di dare gratis ciò che altri si facevano pagare. A coprire i costi ci avrebbe pensato, e in gran parte ci pensa ancora, la pubblicità. Ma, evidentemente, i tempi cambiano.
Google vs Spotify – Già, la Rete non è più quella di una volta. E nell'era delle app e degli app store (e il motore di ricerca, come è noto, ha il suo), chiedere soldi evidentemente non è più tabù, anche se ti chiami Google. Dopo tutto, anche un progetto come Glass prevede la vendita al pubblico. Ma lì si tratta di hardware, così come sono hardware i dispositivi della serie Nexus, e fa meno effetto. Invece, nel caso della musica, almeno in parte (il servizio, infatti, può essere usato anche su dispositivi mobili), siamo sul Web, vale a dire, in casa Google. Nello specifico, con il canone mensile – per ora attivo solo negli Stati Uniti - si potrà accedere a un catalogo di oltre 18 milioni di brani da ascoltare in streaming. Avrà successo? Alcuni ne dubitano. Qualche recensore l’ha già bollato come complessivamente inferiore ai rivali: “Un servizio come Spotify risulta decisamente superiore”, ha scritto Time. Mentre il magazine online Cnet è stato anche più duro: “Al momento, Spotify offre semplicemente un più ampio supporto di sistemi operativi e hardware, più flessibilità sul tipo di piano per cui paghi (inclusa una versione gratuita sostenuta dalla pubblicità) e offre più modi per condividere la musica che ami con le persone con cui sei connesso attraverso Twitter, Facebook, Tumblr, Last.fm e pure una semplice email”.
Video a pagamento – Comunque vada, la mossa di Google nel campo dell'intrattenimento musicale non è isolata. I canali a pagamento lanciati da YouTube qualche settimana fa sono lì a dimostrarlo: 54 in tutto, con prezzi che partono da 99 centesimi di dollaro al mese. Come ha spiegato il Wall Street Journal, si tratta di “una nuova potenziale fonte di introiti per YouTube e i migliaia di partner che producono contenuti”. Ai produttori andrà oltre la metà di quanto incassato dagli abbonamenti. La decisione – che per ora è rivolta solo agli utenti americani - aumenta l'offerta a pagamento della piattaforma che già mette a disposizione, in misura molto limitata, video in vendita o affitto (per prezzi che vanno da 1,99 a 14,99 dollari). Fino ad ora la principale forma di finanziamento per chi offriva i propri contenuti sul servizio video di Google era la cara, vecchia pubblicità. Resta il dubbio – sottolineato anche dal quotidiano americano - se gli utenti, che si sono abituati al consumo gratuito, passeranno a questa nuova modalità di fruizione che prevede l'esborso di denaro attraverso carta di credito. Di certo a Mountain View ci sperano e nell'ultimo anno e mezzo hanno investito 200 milioni di dollari nella creazione di contenuti di qualità.
Pubblicità sovrana – Insomma, musica, video, app o occhiali tecnologici l'impressione è che Google stia provando a differenziare le proprie fonti di entrata. Anche se l'impresa non è facile. La stragrande maggioranza dei suoi introiti derivano comunque dalla pubblicità. Nell'ultimo trimestre, per esempio, l'azienda americana ha denunciato un fatturato di13 miliardi e 969 mila dollari. Di questi il 92% sono arrivati dalla réclame e solo l'8% da altre fonti. Se sembra poco – e in percentuale lo è – va però notato che la quota è raddoppiata rispetto all'anno precedente quando era appena del 4%. Dunque, i progressi ci sono, anche se la strada, dicono i numeri, resta lunga.