Un fallimento? In Italia può durare anche mezzo secolo

Economia
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Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro Paese. Leggine un estratto

di Sergio Rizzo

A Berlino la costruzione del Muro procedeva a ritmi serrati. Papa Giovanni XXIII aveva scomunicato il comunista Fidel Castro e la Francia riconosceva l’indipendenza dell’Algeria.
In Italia Aldo Moro apriva la stagione del centrosinistra, Enrico Mattei regnava sull’Eni, Antonio Segni entrava al Quirinale.
E mentre per la prima volta, dopo 400 anni, le orbite di Nettuno e Plutone si allineavano e gli Stati Uniti mandavano il loro primo uomo in orbita intorno alla Terra, in quel 1962 falliva a Taranto la ditta del signor Otello Semeraro.
Non meritò nemmeno due righe in cronaca la notizia che al tribunale del capoluogo pugliese stava per cominciare una delle procedure fallimentari più lunghe della storia della Repubblica. Quarantasei anni.

Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti.
«Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.»
Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi.
Come il tribunale di Taranto non poteva non sapere, avendo accertato, nel rendiconto del fallimento, un versamento di 10.263 euro «a favore della vedova di O. Semeraro». Quarantasei anni.

Una lentezza inaccettabile per qualunque procedimento. Figuriamoci per un fallimento che ha fatto recuperare in tutto 188.314 euro, ai valori di oggi. Con la doverosa precisazione che un terzo abbondante se n’è andato in spese: 70.000 euro, di cui 50.398 soltanto per gli avvocati. Nei tribunali mancano i cancellieri, è vero.
Nemmeno i giudici sono così numerosi. Poi la burocrazia, le procedure... Vero, verissimo. Ma chi glielo spiega ai due pensionati settantenni di Foggia che un paio d’anni fa si sono visti fissare l’udienza per un ricorso contro l’Inps al 27 febbraio del 2020, cioè dopo 12 anni?
Salvo poi, una volta sbattuta la vicenda in prima pagina, vedersi concedere dal tribunale un generoso sconto di sette anni, dal 2020 al 2013.
Grazie alla legge voluta dall’ex ministro Dc Michele Pinto potranno sempre chiedere i danni per le lungaggini ingiustificate della loro causa. Roba da leccarsi i baffi: un euro al giorno.

Tanto è stato riconosciuto, per citare appena un caso, dalla corte d’Appello di Trento alle vittime di un paio di cause civili per la durata rispettivamente di 17 e 15 anni per il solo primo grado. Trentadue anni in tutto, dei quali ben 12 (7 in un caso e 5 nell’altro) impiegati dal giudice Carlo Sangiorgio soltanto per depositare la sentenza: 4.230 giorni di ritardo, 4.286 euro di multa.
E pensare che l’ex presidente della Cassazione Gaetano Nicastro denunciava già nel 2007 che «se lo Stato dovesse risarcire tutti i danneggiati della irragionevole durata dei processi non basterebbero tre Finanziarie». Lo stesso ministero dell’Economia di un Paese come l’Italia, pluricondannato dalla Corte dei diritti umani per la lentezza esasperante della giustizia, stimava in «almeno 100.000 l’anno» i potenziali aventi diritto a essere risarciti per la durata ingiustificata dei processi. Un numero teorico, ovviamente: per fortuna dello Stato pochissimi sono quelli che gli chiedono i danni.
Per pochissimi che siano, tuttavia, le migliaia e migliaia di cause di risarcimento si aggiungono alle altre, contribuendo a intasare i tribunali.

Il ministero della Giustizia ha già dovuto pagare (dati comunicati dal ministro Angelino Alfano al Senato il 30 novembre 2009) ben 267 milioni di euro.
Tanti soldi, che rappresentano comunque una briciola rispetto agli 8 miliardi l’anno che l’Italia spende, dice Luigi Ferrarella nel libro Fine pena mai, «per impiegare in media 5 anni a decidere se qualcuno è colpevole o innocente; per incarcerare ben 58 detenuti su 100 senza condanne definitive; per dare ragione o torto in una causa civile dopo più di 8 anni; per decidere in 2 anni un licenziamento in prima istanza; per far divorziare marito e moglie in 7 anni e mezzo; per lasciare i creditori in balia di una procedura di fallimento per quasi un decennio; per protrarre per 4 anni e mezzo un’esecuzione immobiliare». Senza parlare della piaga delle prescrizioni.
È ancora Alfano a fornire le cifre: ogni ventiquattr’ore vengono prescritti 466 processi, 170.000 l’anno, 850.000 dal 2004 al 2008.
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Tratto da Sergio Rizzo, La Cricca, Rizzoli, pp. 264, euro 19

Sergio Rizzo (Ivrea 1956) è inviato del “Corriere della Sera”, dopo aver lavorato a “Milano Finanza”, al “Mondo” e al “Giornale”. Ha scritto “In nome della rosa. La storia della casa editrice Mondadori” (1992) con Franco Bechis, “Intervista su politica e affari” (2007) con Bruno Tabacci, con Gian Antonio Stella “La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili"(2007) e “La deriva. Perché l’Italia rischia il naufragio” (2008), e “Rapaci. Il disastroso ritorno dello stato nell’economia italiana” (2009).

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