Aborto senza ricovero: il caso Piemonte e le linee guida inapplicate

In Italia dal 2020 è possibile eseguire l’aborto farmacologico in consultorio o in ambulatorio, anche con la possibilità di autosomministrazione del secondo farmaco a casa propria. Ma a distanza di cinque anni questo è possibile soltanto in quattro regioni, le uniche che hanno recepito e applicato le linee di indirizzo ministeriali: Emilia Romagna, Lazio, Campania e prossimamente Sardegna. La campagna “Aborto senza ricovero” promossa dall’Associazione Luca Coscioni è nata per chiedere ai consigli regionali di approvare procedure chiare, definite e uniformi per l’aborto farmacologico in regime ambulatoriale, e garantire a tutte le donne la possibilità di scegliere. Ma la strada è piena di ostacoli. In Piemonte, nei giorni scorsi, l'assessore regionale alla Sanità Federico Riboldi, con il sostegno del presidente Alberto Cirio, ha dichiarato che “la pillola abortiva non arriverà mai nei consultori” e che “le donne possono recarsi in ospedale. Lo facciamo per la loro salute”. E il governatore Cirio, rispondendo alla consigliera del Partito democratico Nadia Conticelli che chiedeva informazioni in merito al “divieto di somministrazione della Ru486 nei consultori familiari regionali in assenza di circolare”, in una nota ha parlato di “inapplicabilità” delle disposizioni concernenti la somministrazione farmacologica di mifepristone in consultorio, riferendosi a "potenziali rischi per la salute della donna con la somministrazione in ambito extraospedaliero". Il governatore del Piemonte sostiene quindi che le quattro regioni che applicano le linee guida ministeriali mettano a rischio la salute delle donne. Un’affermazione però non vera. Tra scienza, salute e retorica “A dire che non è così sono le indicazioni delle maggiori agenzie di Sanità mondiali, dall’Oms alla ACOG ”, commenta su SkyTG24 Insider Mirella Parachini, specialista in Ostetricia e Ginecologia e coordinatrice della campagna Aborto senza ricovero insieme alla collega Anna Pompili e alla bioeticista Chiara Lalli. "La procedura farmacologica - ricorda l’associazione Coscioni - è stata introdotta in Italia nel 2009, vent'anni dopo la Francia e la Cina. Nel 2019 l’Oms ha rimosso la raccomandazione della somministrazione sotto controllo medico e ne ha ammesso l'autosomministrazione a domicilio. Mentre nel 2020 le linee di indirizzo ministeriali hanno stabilito che la procedura farmacologica può essere eseguita in consultorio o in ambulatorio, anche con autosomministrazione a domicilio del secondo farmaco". L’opposizione alle linee guida, come nel caso del Piemonte, osserva Parachini, sono “resistenze ideologiche: è assurdo farne una questione di protezione della salute delle donne”. E resiste anche la retorica secondo la quale “solo se e dove l’aborto è accessibile, allora le donne abortiscono”, sottolinea, ricordando che è la storia a smentirla. Perché anche nei Paesi in cui attualmente non c’è una legge sull’aborto le donne abortiscono lo stesso. Ma illegalmente. “Continuare quindi a equiparare una maggiore facilità di accesso all’aborto farmacologico a una deterrenza è un’operazione infondata”, spiega l'esperta. “La facilitazione dell’aborto per le donne non è un incentivo: questa falsa credenza è smentita dai dati di letteratura, anche internazionali”. "Una questione ideologica. E uno spreco di risorse pubbliche" La questione sollevata dalla Regione Piemonte è quindi ideologica, sottolinea la ginecologa. ”Preferirei che il governatore argomentasse attraverso argomenti politici i motivi per i quali pensa che questa procedura debba essere contrastata, salvo poi spiegarli anche ai cittadini e alle cittadine che pagano di tasca propria il Sistema Sanitario Nazionale, giustificando la decisione sul piano tecnico sanitario”. Perché non solo la procedura “a domicilio” è assolutamente sicura: esiste anche una questione legata ai costi, che vengono moltiplicati da un ricovero: “Come si può sostenere che la soluzione migliore è un ricovero che costa da 800 a 1300 euro a fronte di una prestazione in consultorio quasi gratuita, dove il costo – di circa 70 euro – è quello delle due pillole?”, si chiede la ginecologa. Sottolineando che abortire senza ricorrere al ricovero "è addirittura più sicuro, perché la procedura a domicilio elimina la possibilità di complicazioni da infezioni ospedaliere. Il mondo medico e ginecologico dovrebbero farsi sentire: non si tratta di opinioni personali, ma di linee guida universalmente approvate. E la disinformazione, se arriva dalla politica, è inaccettabile”. Parachini ricorda che nel lontano 2011 il ministero della Salute ha definito ‘improprie’ le prestazioni sanitarie che si possono svolgere a parità di sicurezza e a parità di scelta del paziente. Perché l’assunzione del secondo farmaco a casa sarebbe sempre e comunque una scelta della donna, senza nessun obbligo. “L’intervento inappropriato è invece quello che non tiene conto del minor tempo, del minor costo e del desiderio del paziente a parità di sicurezza”. Alla base c’è una resistenza anche di natura culturale: “Si confonde la facilitazione con la banalizzazione”, spiega Parachini. “È chiaro che per alcune donne – ma non per tutte – l’aborto, facilitato o meno, sia una scelta non facile. Ma questo non ha nulla a che fare con la metodologia della somministrazione”. Una narrazione distorta: abortire non è sempre un trauma E parlando di scelta, l’esperta ricorda la Stanza dell’Ascolto nata nel 2023 e chiusa pochi mesi fa sempre in Piemonte, all'ospedale Sant'Anna di Torino, che aveva l'obiettivo di intercettare le donne intenzionate a interrompere una gravidanza per convincerle a non farlo. “Quando noi ginecologi e ginecologhe sentiamo parlare di ‘stanze dell’ascolto’ ci sentiamo quasi offesi. Per tutta la mia vita professionale di fronte a una paziente in difficoltà davanti alla scelta di abortire ho sempre consigliato colloqui con psicologi o con assistenti sociali. Questo accade già, da 47 anni lo prevede la legge 194 e trovo mortificante ritenere che il ginecologo e tutto il personale dei consultori non applichino correttamente quanto previsto dalla legge”. La scelta di abortire o meno, comunque, non è necessariamente dolorosa per tutte le donne, nonostante esista una narrazione ‘dominante’ legata all’interruzione volontaria di gravidanza che la racconta come una scelta in tutti i casi drammatica. “Trovo che in alcuni casi ci siano maggiore consapevolezza e responsabilità nello scegliere che in quel momento non si è in grado di dare una buona vita a un bambino. Ma è mortificante pensare che le donne siano incapaci di scegliere”, osserva Parachini. “E in fondo a queste credenze c’è il pensiero che l’autodeterminazione sulla scelta della propria maternità non debba essere in mano alla donna”. Il peso "morale" dell'aborto volontario La campagna Aborto senza ricovero, che ha raccolto quasi 10 mila firme, continua quindi a chiedere l’applicazione di fatto delle linee di indirizzo ministeriale del 2020 per garantire a tutte le donne la possibilità di scegliere: “Non è giusto che questa possibilità cambi a seconda della regione in cui si vive”, dice Chiara Lalli, bioeticista e consigliera generale della Coscioni, commentando le dichiarazioni della Regione Piemonte. “Il problema di fondo anche in questo caso è il peso morale dell’aborto volontario, e pare che l’intenzione sia sempre renderlo il più complicato possibile. Siamo di fronte a un muro di ideologia difficilissimo da scalfire”, dice Lalli, specificando che ignorare le evidenze scientifiche “è molto grave”, così come la narrazione distorta secondo cui con l’aborto senza ricovero “abbandoniamo le donne a casa. E pensare che addirittura la Francia somministra l’aborto farmacologico in telemedicina. Parliamo di un altro pianeta”. La bioeticista sottolinea che quando in Italia si parla di interruzione volontaria di gravidanza si finisce sempre per valutarne gli aspetti morali. “Ma se il diritto alla salute è previsto dalla legge 194, perché garantire il mio diritto alla salute deve diventare una corsa a ostacoli, una via crucis?”. Secondo la bioteticista della Coscioni “siamo di fronte a un atteggiamento moralistico e punitivo, ma non dovrebbe essere questo il ruolo della politica: la morale non dovrebbe avere il potere di trasformarsi in un divieto coercitivo”. E poi c’è una seconda questione, quella legata ai costi di un ricovero non necessario, come sottolineato dalla ginecologa Parachini. Negando la possibilità della somministrazione a domicilio, ricorda l’associazione Coscioni, le donne vengono "costrette a ricoveri inappropriati, inutili e pericolosi, che comportano uno spreco inaccettabile di risorse pubbliche”. Non solo quindi viene impedito alle donne di scegliere, chiarisce Lalli, “ma costringerci a un ricovero o a degli accessi in ospedale non necessari significa buttare tempo e soldi. Perché? Sarebbe interessante ricevere una risposta”.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Aborto senza ricovero: il caso Piemonte e le linee guida inapplicate

Giulia Mengolini