Perché i centri per uomini autori di violenza sono al collasso

È stata picchiata a morte nel sonno Sadjide Muslija, la donna 49enne di origine macedone uccisa a sprangate nella sua casa di Pianello, in provincia di Ancona, il 3 dicembre scorso. Il marito, ritenuto responsabile del femminicidio, doveva frequentare un percorso in un centro per uomini maltrattanti della durata di 12 mesi: il suo patteggiamento a un anno e dieci mesi di reclusione, per le aggressioni e i maltrattamenti nei confronti della moglie che duravano da anni, era stato condizionato a quel tipo di percorso. Ma la struttura non aveva posti liberi. L’uomo, ha spiegato il suo legale, avrebbe iniziato la frequenza del percorso ad aprile o maggio 2026, quindi a più di un anno di distanza dagli ultimi episodi di violenza. Nel gennaio scorso, la moglie lo aveva denunciato dopo un litigio in auto durante il quale lui aveva sfondato il parabrezza con un’ascia. Il giorno dopo l'aveva picchiata, rompendole un dito. Ad aprile, un’aggressione in casa di nuovo con un'ascia con cui aveva sfondato la porta della camera da letto prima di essere arrestato. Poi la libertà, e di nuovo la convivenza. Fino al femminicidio a dicembre. Un’attesa, quella che non ha permesso di inserire tempestivamente l’uomo all’interno di un percorso riabilitativo, che si è rivelata fatale per la donna. E su cui è urgente interrogarsi: a chi appartiene la responsabilità di questa ennesima tutela mancata di una vittima di violenza? Per RELIVE, rete nazionale che riunisce 40 Centri per Autori di Violenza, dopo questa tragedia la tentazione, “semplice quanto fuorviante”, sembra essere quella di attribuire la responsabilità ai CUAV. Ma questo femminicidio – fanno sapere – “non è il risultato di una ‘mancata corsia preferenziale’ da parte di un centro, ma dell’assenza di un sistema che permetta davvero di lavorare in sicurezza e in modo coordinato”. Il problema è a monte, spiega a SkyTG24 Insider Alessandra Pauncz, presidente della Rete nazionale dei centri per uomini autori di violenza. “In Italia oggi abbiamo oltre 100 CUAV con un numero molto alto di uomini in lista d’attesa. Il motivo è semplice: nell’ultimo anno e mezzo il numero di richieste per questo tipo di centri è triplicato, ma lo stanziamento di fondi è rimasto lo stesso”, spiega. Un’equazione che non può funzionare. Non solo: nel rinforzare il Codice Rosso, spiega Pauncz, a fine 2024 è stata prevista per legge anche la natura bisettimanale dei percorsi. Quindi anche il numero di incontri per gli uomini autori di violenza è raddoppiato, senza però un incremento del personale. “Questo è il quadro generale: accessi triplicati, stesse risorse, lavoro raddoppiato”. Si spiegano così le lunghissime liste d’attesa che rischiano di mettere in pericolo la vita delle donne, come nel caso di Ancona. “Queste attese non dovrebbero esistere, soprattutto in casi di criticità”, dice la presidente. “Ma siamo in una situazione di grave emergenza: molti dei nostri operatori sono in burn out perché si stanno occupando di tantissimi gruppi. In più formare queste figure richiede un processo piuttosto articolato”. Per dare qualche numero, il CAM di Firenze - primo in Italia, dal 2009 si occupa della presa in carico di uomini autori di comportamenti violenti nelle relazioni affettive - che lavora con circa 300 uomini all’anno, dispone di soli dieci operatori in totale. “Non bastano: ne servirebbero almeno cinque o sei in più”, sottolinea Pauncz. Le diverse strade di accesso ai centri Un altro tema, legato al nodo delle liste d’attesa, è quello della natura dell’accesso a questo tipo di centri. Esistono diverse strade: nella maggior parte dei casi - come in quello di Pianello - i CUAV sono frequentati da uomini già denunciati per un reato legato alla violenza di genere, che quindi hanno affrontato un procedimento penale e ricevuto una sentenza di condanna: in questi casi la sentenza viene sospesa dal giudice e i soggetti vengono indirizzati all’avvio di un percorso. Le altre due strade sono rappresentate dall'accesso per invio dei Servizi Sociali o un accesso spontaneo per scelta dello stesso maltrattante. “Se prima registravamo prevalentemente accessi spontanei, adesso siamo di fronte a un’inversione di tendenza”, racconta la presidente. “Sono aumentati gli invii obbligati dal magistrato per sospensione della pena”. Questo cambiamento, osserva, mostra che “c’è un problema a monte, perché ottenere la sospensione della pena non è un obbligo istituzionale. Se una persona è pericolosa occorre che i magistrati applichino altri sistemi di controllo, siano i domiciliari, il braccialetto elettronico o il carcere. Il magistrato ha tutti gli elementi rispetto al caso. E allora perché scaricare la responsabilità sugli enti del territorio?”, si chiede la dottoressa. L'esempio dei MARAC nel Regno Unito “In casi in cui il giudice ravvede un alto rischio per la donna e i CUAV sono pieni, serve un ragionamento condiviso. Va convocato un tavolo istituzionale in cui si stabilisce come gestire questo rischio”. In Inghilterra, sottolinea Pauncz, i MARAC hanno dimezzato i femminicidi su Londra. Si tratta di incontri in cui vengono condivise informazioni sui casi di violenza domestica più a rischio, a cui partecipano rappresentanti di polizia, sanità, tutela dell'infanzia, edilizia abitativa e altri specialisti. Al centro c'è il presupposto che nessun singolo ente o individuo può avere una visione completa della vita di una vittima, ma tutti possono disporre di informazioni cruciali per la sua sicurezza. Nel Regno Unito ne sono attivi 270. “Il loro successo non è metafisica, ci sono dei passaggi necessari. Ma bisogna investirci”, sottolinea Pauncz. “Nella maggioranza dei casi lo sforzo di creare dei percorsi di rete c’è anche in Italia, ma non è strutturato a livello istituzionale come nel caso dei MARAC dove i vari soggetti che prendono in carico una vittima di violenza dispongono di un sistema condiviso di valutazione del rischio”. Cosa chiedono i CUAV La rete RELIVE, che riunisce 40 Centri per Autori di Violenza, chiede quindi un dialogo istituzionale “che preveda innanzitutto le risorse necessarie per poter fare il nostro lavoro”, spiega la presidente Pauncz. “E poi serve un piano di confronto sulle modalità di lavoro, perché a mio avviso non è corretto che esca un provvedimento all'interno di una legge che raddoppia i percorsi senza che ci sia stato un confronto con noi rispetto alla sensatezza di un intervento del genere”. L’aggiornamento del Codice Rosso a fine 2024 ha previsto inoltre che il contatto di questi centri con la partner del maltrattante possa venire solo attraverso l'avvocato della donna. “Ma per fare una valutazione del rischio è necessario che si sia la possibilità, ovviamente se la donna acconsente, che lei possa essere contattata. Nel caso di Ancona, la vittima aveva accettato che il marito tornasse a vivere con lei. Occorreva quindi che fosse offerto un supporto alla donna”, spiega Pauncz. “Ma se non coinvolgiamo la persona in pericolo il nostro modo di operare è monco. E siccome non tutte le donne hanno gli avvocati, questo sistema non funziona”. Le leggi ci sono: e la prevenzione? Secondo la rete RELIVE, un Paese che pretende molto dai CUAV ma non li sostiene, non li integra e non li finanzia sta rinunciando consapevolmente alla prevenzione. Le leggi contro la violenza di genere ci sono e sono sufficienti - ricorda Pauncz - dal Codice Rosso del 2019 al reato di femminicidio approvato lo scorso novembre. Quello su cui è urgente lavorare resta la prevenzione: “Serve un progetto sistematizzato di prevenzione nelle scuole di ogni ordine e grado, che sia sistematico e ripetuto nel tempo. Perché esistono anche i genitori violenti: delegare l’educazione affettiva alla famiglia è quindi l’apoteosi dell’assurdo”. Un altro punto importante, secondo l’esperta, vedrebbe un'azione di prevenzione massiccia sugli uomini che attraversano momenti di crisi e difficoltà. “Incrementare anche l'accesso all’aiuto agli uomini nelle fasi per loro più complesse e delicate, come quella della separazione o della nascita dei primi figli” per dare loro la possibilità di chiedere aiuto prima che la violenza venga agita. Proposte, queste, che riguardano la prevenzione primaria e secondaria. Dopodiché, ricorda la presidente – “dobbiamo avere un sistema in grado di rispondere quando succedono le cose, anche nelle fasi iniziali”. Sarebbe quindi importante iniziare a pensare ai CUAV non solo come luoghi sospensione della pena, ma anche spazi in cui gli uomini si possano rivolgere anche alle prime avvisaglie di violenza, per poi poter partecipare a dei percorsi solidi di riabilitazione. “Percorsi che sono necessari anche in carcere, e dopo il carcere”, sottolinea Pauncz. “Non va mai dimenticato che la pena deve avere una funziona riabilitativa: a dirlo è la nostra Costituzione”.

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Giulia Mengolini