Perché al Giulio Cesare vittime e responsabili sono tutti figli nostri

Da un paio d’anni abito a un centinaio di metri dal Giulio Cesare, il liceo romano mitico anche per chi romano non è-eravamo trentaquattro/quelli della terza E/tutti belli ed eleganti tranne me… Ogni mattina, accompagnando mia figlia a scuola, passiamo lì davanti: lei è talmente affascinata da quelle ragazze e quei ragazzi grandi che chiacchierano, si agitano, si affannano perché sono in ritardo, si trascinano anche se sono in ritardo, che la chiamiamo la nostra serie preferita: Il Giulio Cesare, e ci divertiamo a inventare nomi e a immaginare caratteri per i protagonisti. C’è Cecilia, bruna e sempre sorridente, la nostra preferita, c’è Barbara, bionda e bella e consapevole di esserlo, c’è Marco, che secondo noi è innamorato di Cecilia, Enrico, l’artista del gruppo, Giacomo, il simpatico…Siamo perfino arrivate a uscire dè della a casa un quarto d’ora prima, sotto campagna elettorale, per vedere, ascoltare la propaganda delle liste, scegliere quale avremmo votato noi - sempre e comunque quella di Cecilia, mia figlia non aveva dubbi. Anche per questo, la notizia degli ultimi giorni che vede protagonista un bagno dei ragazzi proprio del Giulio Cesare, sul cui muro è stata stilata una lista degli stupri, con i nomi di otto ragazze e di un ragazzo, mi ha sconvolta. Lo avrebbe fatto comunque, certo: ma è come se su quel muro ci fossero i nomi di tutte le ragazze, tutti i ragazzi a cui ci siamo affezionate. L’hanno ripetuto gli stessi studenti, in un’assemblea messa su dalle loro emozioni a caldo: quei nomi sono i nomi di tutte, di tutti. Sono intervenuti Valditara, i giornali, la Bruzzone, “una madre, un padre, due che non si voltano dall’altra parte” hanno scritto una lettera aperta agli autori della scritta in cui li esortano giustamente, ma con un tono battagliero che invece non sposo, a uscire allo scoperto, gli domandano se sono stati i loro genitori a insegnargli che “il dissenso politico si risolve con la minaccia sessuale”, gli spiegano che “la violenza non spegne le voci, le amplifica”. Nel frattempo, quasi in ogni classe, perfino in quelle di chi si è ritrovato sulla lista, i professori vanno avanti con il programma, preferiscono fare finta di niente. Come al solito, dunque, da una parte si urla, si schiamazza sui social, dall’altra si tace. Mentre ieri mattina avvicino Cecilia, che in realtà scopro chiamarsi S., ma per noi Cecilia rimarrà, le chiedo: come stai?, e mi risponde: ho paura. Paura di quello che è successo, paura per le mie sette compagne, per il mio compagno, ma adesso anche per i responsabili - non vorrei mai che facessero un gesto estremo, la pressione è troppa… Che significa, che cosa sta dicendo Cecilia? Mi chiede mia figlia. Nelle stesse ore, alla festa per gli otto anni di una sua ex compagna della materna, in una fattoria, due bambini hanno disturbato con un bastone il sonno degli struzzi strillando israelianiii, palestinesiii, ci rubate i soldiii, dovete morire. Sulla chat dei genitori della loro classe che, come tutte le chat, fibrilla ogni giorno per decidere cosa regalare alle maestre per Natale o per capire se il grembiule per la pittura va infilato nello zaino il martedì o il mercoledì, il papà della festeggiata ha sommessamente, gentilmente, raccontato il fatto. Non ha accusato nessuno, si è limitato a domandare: perché i nostri figli parlano così? Si rendono conto di quello che chissà dove hanno ascoltato, prima di ripeterlo? Possiamo aprire un confronto fra di noi? Solo due genitori hanno risposto. È passata un’ora e si è ricominciato a discutere del regalo per le maestre, dei grembiuli. Che cosa sta dicendo Cecilia? Insiste mia figlia. E io vorrei trovare un modo per risponderle in bambinese che l’unica vera arma contro il patriarcato, contro la minaccia e contro ogni forma di sopruso è il dialogo. Che chi parla male pensa male e vive male: le parole sono importanti. Vorrei spiegarle che i forti soffrono, i deboli fanno soffrire e poi ci sono quelli come Cecilia che non si rassegnano. Anziché minacciare chi ha minacciato di stupro, vorrei convincerla che bisognerebbe chiedergli: perché? Cos’è che ti brucia dentro al punto di averti portato a un gesto del genere? A esserti insopportabile è una coscienza? Un’incoscienza? Quando hai smesso di pensare con la tua testa, di sentire con il tuo cuore? Forse quel giorno, in fattoria, al compleanno del tuo compagno di terza che compieva otto anni? È lì che hai perso la certezza che potesse avere un peso quello che dicevi? Che potesse avere davvero a che fare con quello che volevi dire? Poi ti hanno allungato un telefono, sei caduto nella rete e a quel punto la distanza fra le emozioni, i pensieri, le parole e i gesti si è fatta incolmabile? Sto ancora cercando il modo di rispondere a mia figlia così - perché sono convinta non si possa trovare da soli, ma sia una faccenda collettiva, questa ricerca. Nel frattempo le dico: Cecilia ha paura e ha ragione. Hai paura anche tu, mamma? Sì, amore. Ho paura anche io. …Però questa puntata de Il Giulio Cesare finisce bene, no? Le rispondo non lo so - è quello che sento. Cecilia almeno ce la farà a non avere più paura? Le rispondo sì. E’ quello che sento. E mentre naturalmente spero che cresca anche lei come Cecilia, capace di stare in contatto con le sue emozioni e i pensieri e le parole e i gesti, metto a fuoco l’inquietudine che da quando ho letto quella lista non mi abbandona. Le vittime sono tutte figlie nostre, certo. Ma lo sono anche i responsabili: se non facciamo lo sforzo di pensare così, a salvarsi saranno solo i ragazzi già salvi, i soliti privilegiati. Che oggi non sono più solo quelli che possono permettersi uno stile di vita ad altri negato: sono soprattutto quelli che a casa o a scuola hanno almeno un adulto che li ascolta. Che sente, pensa, parla assieme a loro, per poi lasciarli liberi di agire. E di cambiare, magari, un pezzettino di questo grande, sempre più complicato, ferito mondo.

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Perché al Giulio Cesare vittime e responsabili sono tutti figli nostri

Chiara Gamberale