Valentina Pitzalis: "La lotta alla violenza deve iniziare a scuola"

Valentina Pitzalis racconta di essere morta il 17 aprile del 2011. Quel giorno la sua vita di prima è finita per sempre. Il dolore, fisico e psicologico, dopo essere scampata a un tentato femminicidio per mano del suo ex marito che le diede fuoco nella sua casa a Bacu Abis, in Sardegna, sembrava non lasciarle più speranza. Finché un giorno si è resa conto di avere avuto una seconda occasione: “Se sono viva c’è un motivo, devo trovarlo”, si è detta. Così da anni racconta la sua storia a ragazzi e ragazze di scuole medie e superiori. “Non sono un esempio, ma un monito. Anche per chi non è sopravvissuta”, ha detto venerdì mattina al teatro degli Arcimboldi di Milano davanti a oltre 2 mila studenti e studentesse in occasione dell’evento #MAIPIÙ, patrocinato dal Comune e organizzato da OTB Foundation e FARE X BENE, nell’ambito del percorso di prevenzione e contrasto a ogni forma di discriminazione e violenza di genere, in vista del 25 Novembre. Pitzalis ha portato sul palco la sua testimonianza ripercorrendo la storia dall’inizio: da quando a 22 anni incontrò il ragazzo con cui decise di sposarsi, fino al giorno, cinque anni dopo, in cui lui tentò di ucciderla lanciandole addosso del liquido infiammabile, e finendo per perdere la vita lui stesso in quell’incendio. In mezzo, una lunga e devastante escalation di controllo, isolamento, violenza verbale. “Ero giovane, mi fidavo di quell’uomo. E non conoscevo forme di violenza diverse da quella fisica”, ha raccontato agli studenti. “Quella è più facile da riconoscere, perché lascia segni visibili anche alle persone che ti stanno intorno. Non sono mai stata picchiata, ma ho vissuto violenza psicologica per anni. Guardatemi, guardate come dalle parole si può passare ai fatti”. Il suo corpo è irrimediabilmente segnato: ha riportato gravissime ustioni, subito un’amputazione alla mano sinistra e si è sottoposta a 32 operazioni chirurgiche. Valentina Pitzalis racconta che quel 17 aprile 2011 tra lei e il marito non ci fu nessuna lite, nessun raptus: “Aveva premeditato la mia morte perché dopo anni di abusi psicologici mi ero finalmente ribellata”. Il suo obiettivo, oggi, è rivolgersi alle giovani generazioni e promuovere l’educazione al rispetto e al consenso, perché solo attraverso condivisione e consapevolezza può avvenire un cambiamento culturale. Alla fine del racconto, in teatro si respira commozione. Il silenzio si trasforma in un minuto di rumore e protesta per Valentina e tutte le vittime di violenza di genere. I ragazzi e le ragazze a turno alzano la mano, vogliono saperne di più: cosa direbbe oggi a una donna che sta attraversando lo stesso calvario? Dove ha trovato la forza per vivere di nuovo? Il suo corpo prova ancora dolore per le ferite che porta? L'incontro con 90 mila studenti dal 2018 Dal 2018 l'organizzazione no profit OTB Foundation è impegnata nella promozione di una una cultura del rispetto e dell’uguaglianza di genere. "Oggi questo impegno trova una nuova forza nel percorso condiviso con il Ministero dell’Istruzione, con cui abbiamo firmato un protocollo d’intesa per portare nelle scuole italiane un’educazione fondata sul dialogo, sull’ascolto e sulla consapevolezza relazionale”, racconta la vicepresidente Arianna Alessi. “Con i nostri percorsi di prevenzione abbiamo già raggiunto 90 mila studenti in tutta Italia, perché crediamo che la scuola sia il luogo dove può nascere il cambiamento più profondo. La violenza di genere non è una piaga lontana: è nelle case, nelle relazioni, nei linguaggi quotidiani. Per questo serve un’alleanza tra istituzioni, famiglie e società civile". Sul palco insieme a Valentina Pitzalis anche Giusy Laganà, attivista e direttrice Generale di FARE X BENE ETS: "Lavoriamo su percorsi dedicati all'affettività e ai sentimenti. Oggi fa paura parlare di sessualità nonostante i ragazzi accedano quotidianamente a piattaforme, anche pornografiche, che oggettivizzano le donne. Come se le relazioni non avessero bisogno di consenso". Contro questo tipo di narrazione il consenso è un concetto che va insegnato ai ragazzi, ricorda Laganà, insieme a quello del rifiuto: "Dobbiamo raccontare loro che un 'no' è un 'no' e aiutarli ad accettarlo". Valentina, il suo racconto ha commosso la sala. Quanto le costa emotivamente raccontare la tua storia? Ogni volta è una batosta, un dolore, perché nella mia mente ripercorro tutto quello che è successo come se fosse una seduta di psicoterapia che non finisce mai. Fa male, ma il mio cervello si è abituato a porsi in una situazione di difesa: è come se raccontassi la storia di qualcun altro. Percorsi come questi hanno una funzione importante soprattutto perché l'educazione affettiva affettiva in classe non è materia obbligatoria. Dobbiamo continuare a lottare affinché fin dalle scuole elementari si facciano percorsi di educazione all’affettività e ai sentimenti. Ogni età ovviamente ha bisogno di un linguaggio diverso. E va chiarito che non si tratta di insegnare il sesso, come molti ancora credono, ma il rispetto e il consenso. I ragazzi hanno a che fare con la violenza anche attraverso i cellulari, dai videogiochi ai social. E allora è paradossale che i contenuti violenti siano fruibili anche dai bambini, mentre l’educazione ai sentimenti sia ancora un tabù. Percorsi come questi hanno una funzione importante, ma l'educazione affettiva affettiva in classe non è obbligatoria. Dobbiamo continuare a combattere affinché fin dalle scuole elementari si facciano percorsi di educazione all’affettività e ai sentimenti. Ogni età ovviamente ha bisogno di un linguaggio diverso. E va chiarito che non si tratta di insegnare il sesso, come molti ancora credono, ma il rispetto e il consenso. I ragazzi hanno a che fare con la violenza anche attraverso i cellulari, dai videogiochi ai social. E allora è paradossale che i contenuti violenti siano fruibili anche dai bambini, mentre l’educazione ai sentimenti sia ancora un tabù. E l'educazione in famiglia non è sufficiente. La famiglia deve educare, ma non basta. È la scuola che deve intervenire. Non tutte le famiglie sono funzionali, alcuni genitori hanno più pudore o meno strumenti di altri. Per questo deve esserci un luogo neutro atto a educare in questo senso tutti e tutte allo stesso modo. Quale posto migliore se non la scuola? Ci racconta uno scambio con gli studenti che incontra che l'ha particolarmente colpita? Due giorni fa sono stata in una scuola superiore serale. Un ragazzo alla fine dell’incontro ha preso la parola per ringraziarmi per la mia testimonianza e ha raccontato di aver dovuto denunciare il compagno della madre per salvarla. Mi ha colpito molto che abbia trovato il coraggio di condividere un fatto così personale davanti a tutti, senza vergognarsi, come capita spesso ai ragazzi a quell'età. Ed è questo che ribadisco sempre: non siete voi, non siamo noi, a dover provare vergogna. Se denunci, non solo stai salvando la persona a cui vuoi bene oltre a te stesso, ma anche la prossima compagna di quell’uomo. Ha raccontato di un'escalation di controllo ossessivo, privazione della libertà e isolamento da parte del suo ex marito. Dico ai ragazzi e alle ragazze di non ripetere i miei errori: la violenza psicologica non deve mai essere sottovalutata. Non dobbiamo credere che se non ci lascia i segni sul corpo faccia meno male, anzi: può farne ancora di più, perché ti annienta. Ho vissuto episodi gravissimi, è capitato persino che lui prima di uscire di casa mi chiudesse in camera a chiave. Era ossessionato che qualcuno potesse entrare. E poi mi ha isolata da tutti, non avevo più amici. Non mi controllava per paura di perdermi, ma perché mi considerava una sua proprietà. Il suo percorso di rinascita è stato lungo e tortuoso. C’è stato un momento in cui ha capito che voleva continuare a vivere? Prima di capirlo, di reagire, mi è servito moltissimo tempo. All’inizio mi chiedevo perché non fossi morta in quell’incendio, dicevo ai medici che non volevo andare avanti. Nei sei mesi in cui sono stata in ospedale mi hanno dovuto reinsegnare a camminare perché la mia muscolatura dopo un periodo così lungo non rispondeva più. Ho pensato più di una volta di lanciarmi da quella finestra, ma non avevo nemmeno la forza fisica per riuscirci. Dicevo ai dottori che volevo rimettermi in piedi unicamente per quello scopo. Poi cos’è successo? Prima di potermi muovere di nuovo ci sono voluti mesi di dolori e sofferenze fisiche, è stata durissima. E alla fine, dopo tutto l’impegno che ho messo per reimparare a muovermi, mi sono detta: “No, dopo tutta questa fatica io devo vivere". Però avrei vissuto a una condizione: senza uscire più di casa per non far vedere il mio nuovo aspetto a nessuno. Invece con il tempo è riuscita ad accettare quel nuovo corpo. Da dove ha iniziato? Il giorno in cui mi hanno dimessa dall’ospedale mia madre ha trovato un escamotage per evitare che mi chiudessi in casa. Si è fermata con l’auto nel parcheggio di un supermercato e mi ha chiesto di scendere con lei. Io ero spaventata dall’idea di rimanere da sola dopo tanto tempo, così mi convinsi a scendere insieme a lei. Una volta, poi un'altra. Sarà stato doloroso, ma ce l'ha fatta. All'inizio è stato terribile: ricordo gli sguardi che mi rivolgevano le persone, persino alcuni genitori che tappavano gli occhi ai bambini perché non mi guardassero. Ma nonostante questo, ogni giorno mia madre continuava a inventarsi una nuova scusa per farmi uscire di casa. Ce l'ho fatta grazie a tutto l'amore che ho ricevuto.

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Giulia Mengolini