Violenza sulle donne, perché denunciare è così difficile

Pamela Genini aveva 29 anni. È stata ammazzata con 30 coltellate dall’ex compagno Gianluca Soncin che, sta emergendo dalle indagini, la riteneva “un suo oggetto”. A una settimana dal suo femminicidio, un’altra donna di 62anni, Luciana Ronchi, è morta in ospedale dopo che l’ex marito da cui era separata da tre anni l’ha aggredita e accoltellata brutalmente al volto: non accettava l’inizio di una nuova relazione. Sono solo gli ultimi due femminicidi di una insopportabilmente lunga, lunghissima, lista. La matrice, sempre la stessa. In questi giorni si è parlato e scritto molto sui giornali del caso di Genini, sottolineando spesso che la ragazza non avesse denunciato l’ex compagno nonostante le violenze. Ma è emerso da un referto datato settembre 2024 che Pamela aveva paura che Soncin potesse ammazzarla già da oltre un anno, quando si recò andò al Pronto soccorso per farsi visitare dopo essere stata picchiata. Le vennero sottoposte le cinque domande del protocollo di valutazione del rischio di violenze e rispose in modo affermativo a quattro quesiti su cinque, compreso quello sulla possibilità che lui potesse ucciderla. Riferì anche di essere stata in passato violentata ma non presentò denuncia formale ai Carabinieri che acquisirono il referto. Una scelta, quella di una donna di non denunciare, che molto spesso nasconde paure profonde e non può in nessun modo finire per colpevolizzare la vittima stessa. “Dire alle donne ‘denunciate’ e basta non serve a niente. I dati ci dicono che le denunce aumentano, ma il sistema attorno non è in grado di reggerle”, dice a SkyTG24 Insider Manuela Ulivi - presidente del Centro delle Donne Maltrattate di Milano e avvocata della Rete D.i.Re - che da 35 anni lavora con donne vittime di violenza. Ci ha spiegato perché per molte donne denunciare è così difficile, e in troppi casi, purtroppo, inutile. "Prendiamo l’esempio di Milano che conosco bene: una decina di anni fa la Procura milanese contava circa 1500-2000 denunce per violenza di genere all’anno, mentre oggi il numero si aggira attorno ai 5 mila casi. La denuncia serve a far conoscere all’autorità un fatto di reato ed eventualmente a chiedere misure cautelari per il maltrattante. Ma sappiamo che da sola non mette la donna in una situazione di sicurezza". Nel caso di Pamela è emerso che un anno fa aveva riferito in Pronto Soccorso di avere paura di essere uccisa, ma le autorità non vennero attivate. Avrebbero dovuto anche in assenza di una denuncia? Se i sanitari avessero voluto approfondire la situazione di questa ragazza, avrebbero potuto raccogliere tutti gli episodi precedenti e magari attraverso un ascolto attento e competente, individuare nella situazione di questa donna un reato di maltrattamenti, quindi un reato procedibile d'ufficio. Ragione per cui essendo loro degli incaricati di pubblico servizio in quanto sanitari avrebbero dovuto fare la segnalazione alla Procura. Ma non è mio compito individuare eventuali responsabilità. E penso che siamo un po’ tutti responsabili quando non crediamo alle donne, quando non le ascoltiamo e le giudichiamo prima ancora di sapere come stanno le cose. Per quali ragioni sporgere denuncia per molte donne è difficile? Innanzitutto voglio dire che la denuncia non è l’obiettivo principale di una donna vittima di violenza: il loro obiettivo è uscire dalla situazione di pericolo in cui si trovano e non vedere mai più quell’uomo. Detto questo, è chiaro che la denuncia mette in moto molte paure, che anche Pamela Genini sicuramente provava. La più grande è che dopo una denuncia, che ovviamente è giusto fare, le cose possano addirittura peggiorare. In che modo? Le donne sanno che quell’uomo non sarà mai incarcerato per la vita, che magari prima ancora che venga arrestato potrebbe venire a conoscenza della denuncia e loro finiscono per trovarsi in una situazione di maggior pericolo rispetto a prima della denuncia. Siamo all’assurdo, questo ovviamente è paradossale, ma è un aspetto che nel nostro lavoro con CADMI raccogliamo sempre. Poi ci sono altre ragioni che non portano le donne a denunciare. Quali sono? Innanzitutto se hanno figli le cose si complicano molto: dopo una denuncia parte un iter del Tribunale per i minorenni che in alcuni passaggi diventa davvero giudicante nei confronti delle vittime. E poi viene minimizzato quello che hanno vissuto: la mia scrivania, per farle un esempio, è piena di relazioni dei servizi sociali che parlano di “conflitto” anziché di “violenza”. E poi c’è un altro aspetto che riguarda tutte le donne, non solo le madri: le indagini vengono fatte poco e male. Ed è facile capirne il motivo. Prendiamo di nuovo Milano come esempio. Sa quanti Procuratori devono gestire quelle 5 mila denunce? Otto, nove al massimo. Come possiamo migliorare le cose se continuiamo a ridurre il personale? Questa carenza riguarda anche il personale sanitario? Certo. Tutti i Pronto soccorso dovrebbero seguire una procedura in casi di violenza, lo stabilisce un decreto ministeriale del 2017. Quando la donna si reca in PS perché ha subito violenza dove essere collocata in una stanza dedicata, 20 minuti al massimo di attesa. Un medico deve fare tutte le verifiche del caso e una diagnosi attraverso modalità stabilite. Poi deve invitare la donna a rivolgersi a uno psicologo o una psicologa, e a recarsi, se vuole, in un centro antiviolenza. La assicuro che questo iter, obbligatorio, non viene rispettato nella stragrande maggioranza dei casi. Né a Milano, né altrove. Quindi uno dei problemi è sistemico: ci sono gravi carenze sul piano pratico. Sì, abbiamo un sistema che sulla carta, da un punto di vista teorico ha tutto, ma da quello esecutivo e di pratica effettiva di intervento, non sta funzionando. E le donne lo sanno, perché queste informazioni le condividono tra loro, visto che per fortuna non tutte vengono uccise. Sa quante si dicono: “Ho denunciato ma a me non è successo niente”, “se l'avessi saputo prima avrei evitato”, “sono stata io infamata e messa sotto controllo come genitore” eccetera eccetera. Questo sistema ha dei buchi molto gravi. Come possiamo supportare una donna vicina a noi che ha subito violenza? È molto importante agganciare questa donna, ricordarle che esistono i centri antiviolenza e indirizzarla in uno di questi. Si deve sapere che in un centro antiviolenza nessun passaggio è automatico: la donna viene ascoltata da persone competenti con tutto il tempo e tutta la tranquillità possibili e si valuta assieme a lei la situazione di pericolo in cui si trova. Per i casi più a rischio c’è la possibilità di essere inserita per un periodo di tempo in una casa rifugio, un luogo protetto dove è più difficile o quasi impossibile che la si possa ritrovare. Se una donna vittima di violenza non riesce o non vuole denunciare, le persone vicine possono farlo al suo posto? Purtroppo devo dirle questo: se non si convince la donna stessa, è impossibile sostituirsi alla sua volontà. Anzi, si rischia anche di metterla in una situazione di maggior pericolo, oltre che di imbarazzo. Detto questo, la risposta è sì: un esposto si può fare anche come parti terze. Se si tratta di violenza domestica si parla di fatti perseguibili, ma proprio perché è tra le quattro mura domestiche che tutto avviene, è molto difficile per un ‘esterno’ avere le prove di quanto dichiara. Insomma, denunciare è molto difficile. E gli ostacoli sono diversi. Ma le donne devono essere salvate anche se non denunciano. Questo è un punto importante: è fondamentale che tutte possano contare su delle indagini svolte correttamente e una conclusione utile. Possiamo raccogliere migliaia di denunce, ma se la metà di queste finisce per essere archiviata – e ce lo dice la procura di Milano – non si risolve niente. Quello che dobbiamo ottenere sono giuste tempistiche di indagini, processi giusti e la formazione di tutti gli operatori: poliziotti, medici, e soprattutto magistrati. Perché se raccolgo 5 mila denunce ma non ho sufficienti magistrati né persone che fanno le indagini, tanti processi non inizieranno mai. Si parla molto del perché le donne non denunciano, del perché non se ne sono andate prima… Ma la violenza di genere riguarda gli uomini. Il problema è che in Italia – ma non solo - non siamo ancora attrezzati per concentrare tutta la nostra attenzione sul maltrattante. Bisognerebbe pensare a misure cautelari più significative e a un lavoro da fare su questi uomini. Ma gran parte del lavoro va fatto prima che questi fatti accadano: senza dubbio quello di formazione di tutti gli operatori che si occupano di violenza, ma anche quello di prevenzione rispetto alla cultura: siamo ancora immersi in un humus troppo vasto che consente di pensare alla donna come a un oggetto di proprietà, alla possibilità di saltarle addosso come fosse una preda, un oggetto di possesso. Tutti gli uomini, nessuno escluso, devono fare una riflessione. Come vede il ruolo degli uomini rispetto a questi temi? C’è stata un’evoluzione? Gli uomini devono assolutamente partecipare a dibattiti su questi temi. Io ho iniziato nel lontano 2010 a sedermi attorno a un tavolo con alcuni di loro che volevano mettersi in discussione. Eravamo donne e uomini insieme per fare una sorta di autocoscienza tra di noi e chiederci: dov’è il seme di questa violenza, dov’è che si innesca? Parlarne tra uomini e donne non è facile. Ma oggi esistono diverse realtà di autocoscienza maschile. E credo che dovrebbero essere sempre di più. Gli uomini non sono abituati a parlare dei loro sentimenti profondi. Tutti devono interrogarsi, perché la violenza fa male anche a loro: le donne hanno paura. E nelle relazioni viene meno la libertà. Vogliamo vivere insieme in un mondo più rispettoso per tutti e tutte. Perché accada, la prevenzione è un’altra arma fondamentale. In Italia però l’educazione sessuo-affettiva non è una materia obbligatoria. Questo è grave, perché la prevenzione ha un'importanza enorme, cominciando dalla scuola elementare, passando alle medie e alle superiori. Ma alle superiori siamo già in ritardo. Negare l’educazione affettiva a scuola ai ragazzi e alle ragazze vuol dire lasciare che la facciano il porno e i social. L'educazione non è solo compito della famiglia: è di tutti gli ambienti che un bambino frequenta. Ed è in classe che i bambini e le bambine iniziano, e imparano, a relazionarsi gli uni con gli altri. Le faccio un esempio. Prego. Una donna che conosco pochi giorni fa mi ha raccontato che sua figlia di cinque anni è tornata a casa da scuola arrabbiata perché un suo compagno della scuola materna gli aveva detto di stare zitta perché è una femmina. È intervenuta la mamma, che parlandone con la maestra ha chiesto se si potesse affrontare il tema in classe. E c’è stato un momento formativo molto bello: si è parlato di rispetto del corpo dell’altro tramite dei giochi. A un bambino di cinque anni parli di consenso, mica di penetrazione come qualcuno crede. I bambini sono puri e liberi. Se dai loro un imprinting, quello può assumere un valore enorme.

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Giulia Mengolini