Femminicidio, le imperdonabili omissioni e ciò che possiamo fare davvero

Non se ne viene fuori, non se ne verrà fuori per chissà per quanto tempo perché il seme e le radici sono sotterrati nel Dna, annidati a chissà quali quote, e noi sembriamo, forse lo siamo davvero, impotenti. Segue sempre lo stesso copione, il femminicidio, si parte dai segnali premonitori, si attacca la farfalla per le ali, bastano due spilli e una tavoletta, si prosegue con la violenza immateriale cui si affiancano le prime percosse e tante pretese intollerabili, prima tra tutte la rivendicazione del diritto di proprietà. Poi arriva il fatto, segue il rito delle esecrazioni ufficiali, della analisi raffinate ma perfettamente inutili, qualche volta, dopo ragionamenti sofisticati, arriviamo a definire pazzo il carnefice, ma solo perché mostra un comportamento difforme dalle nostre attese. Così, ogni volta che si verifica un femminicidio inizia la caccia al pazzo e simultaneamente partono le riflessioni funzionali a tale conclusione già scritta, ma la pazzia non c’entra nulla. Dietro c’è dell’altro, occorre lasciare perdere le diagnosi, che danno il nome alle cose ma non è detto ce le facciano conoscere, bisogna concentrarsi sulla trama, la stessa che a posteriori ci sembrerà chiara, ma lo era anche prima, bastava prestare un filo di attenzione. Comportarsi come se stesse succedendo a nostra figlia, ma forse era troppo. L’idea che una persona come noi possa agire da mostro ci mette sottosopra, fa tremare le fondamenta per questo la barriera che divide il presunto pazzo dal presunto sano diventa una bella polizza di assicurazione, una linea Maginot che va difesa a ogni costo. Ne va della nostra serenità. Ma non è un muro, semmai un foglio di carta velina, che si trapassa con un dito. Tempo fa qualcuno mi aveva chiesto quante persone davvero malate avevo visto nel corso dei decenni in cui si era sviluppato il mio lavoro. Avevo risposto che probabilmente si potevano contare sulle dita di una sola mano, il resto è normalità, stressata, diseducata, fragile, messa sotto pressione ma sempre normalità. Dobbiamo rassegnarci, tutti i drammi di cui leggiamo, femminicidi inclusi, sono da riportare a questa “normalità esasperata”. Andare a caccia di follia ci fa solo perdere tempo e ci impedisce di comprendere il senso delle cose, la loro trama, che non c’entra nulla con l’uso gigionesco di parole prive di senso per la gente comune, eppure proprio per questo suggestive, parole inventate per vendere un prodotto, ma che non spiegano proprio nulla se non la sete di stupore che pervade i narratori della realtà. Non ci sono pazzi nel femminicidio, ma solo ex bambini viziati oppure, al contrario, poco amati, sebbene il significato sia lo stesso perché viziare un bambino significa semplicemente non amarlo. È proprio dalle file degli ex bambini viziati-poco amati che scaturiscono individui a rischio perché incapaci di ascoltare le ragioni dell’altro. A loro furono insegnate due cose contraddittorie ma dalle conseguenze analoghe. Ai primi, i viziati, fu insegnato, con ostinazione, che fuori dalla loro volontà non esiste alcunché, e chi vuole contrastarla deve sopportarne le conseguenze. Rifiutare sentimentalmente un ex bambino viziato, rifiutare il primato del suo volere, può scatenare la furia degli elementi. Ai secondi, i poco amati, i trascurati, o coloro che semplicemente si sentirono tali, può fare molto male riaprire vecchie ferite, su di loro il rifiuto fa l’effetto di una terribile reiterazione. Gli ex bambini viziati e gli ex bambini trascurati sono quelli che faticano di più a trovare una nicchia nella vita sociale, perché sono partiti male, senza che nessuno provasse a correggere quella distorsione, in particolare gli ex bambini viziati risultano scarsamente idonei alle relazioni sentimentali. Quando una coppia si rompe - escludendo dal computo le fratture dovute alla caduta dei sentimenti - si scopre che quasi sempre al suo interno dimorava un ex bambino viziato o una ex bambina viziata, perché tale tipologia esistenziale è composta di individui che non furono mai contrastati da piccoli, di persone a cui non fu mai insegnato che la Terra è abitata da otto miliardi di individui. Vi sono casi estremi in cui si salda una storia complementare, tra bambino viziato-bambina trascurata o viceversa, e non c’è via di scampo. Una trentina di anni fa arrivò da me una giovane donna reduce da un lungo periodo di ricovero, portava segni evidenti di un incidente. Il suo fidanzato era un figlio unico divinizzato dai genitori. Lei era primogenita, intelligente, laureata con lode, ma trascurata, tutte le attese erano concentrate sul fratello, solo perché maschio e sebbene fosse un inetto. Il fidanzato era abituato a tenerla sotto controllo, lei glielo lasciava fare, “grata” per averla scelta, visto che in casa si era costruita una pessima idea del proprio valore. Appartenere, per chi non si senti mai di qualcuno, può essere una grande, talvolta pericolosa, consolazione. Incapparono in un incidente terribile, che uccise lui e lasciò gravi menomazioni. La scelta di un itinerario montano che lei voleva rifiutare, ma non ebbe la forza di farlo per timore di non essere più “sua”, una minaccia sottile sempre presente in questi casi. Lei sapeva ciò che poteva accadere, ma da ex bambina trascurata, riconoscente a chi l’aveva voluta, non se la sentì di opporsi. Lui, ex bambino viziato, non tollerava di sentirsi contraddetto. Una terribile complementarità. Insieme andarono incontro a un destino tristissimo. Il femminicidio è figlio dell’impreparazione della famiglia, della nostra generale incompetenza e dell’inadeguatezza del legislatore, incapace di immaginare modalità di contrasto realistiche, anche pedagogiche. Occorre un welfare specifico competente, innovativo e capillare, perché il maschio sta sperimentando una “diminuzione” epocale, non è pronto e chissà quando lo sarà. Il quadro è aggravato da una sproporzione fisica senza rimedio, per questo è illusorio anche solo ipotizzare che un uomo risoluto a uccidere la propria compagna si possa fermare con un dispositivo elettronico. Chi percuote o minaccia una donna va fermato e recluso in strutture di contenimento e di recupero, perché il pensiero si è già trasformato in ossessione, in uno stato esistenziale che somiglia a una dipendenza. Se si avesse tempo di ascoltare davvero le donne che per anni sono vissute sotto il tallone di uno stalker, spesso lo stadio precedente alla tragedia, si capirebbe che la politica della dissuasione pacifica non serve a molto perché gli elementi in gioco sono più grandi della buona volontà. Occorrono nuove forme di prevenzione, collettive, “disciolte” nella società civile. Pamela Genini, come tutte le sue compagne di sventura, aveva trascorso mesi di inferno e, come accade con una certa regolarità, aveva desistito dalle denunce, ma altri, parenti stretti, persone della cerchia intima e tanti vicini di casa sapevano, soprattutto a Cervia. L’ambiente, non solo in questo caso, deve sentirsi responsabile, anche noi siamo l’ambiente, e deve convincersi che lo Stato, nessuno stato, possiede antenne così raffinate da diventare vicino di casa di tutti. Dobbiamo essere noi i vicini di casa, non solo delle donne in difficoltà. Solo una grande azione sociale può fermare i femminicidi, dobbiamo sentirci tutti coinvolti in questa piaga, senza aspettare che tocchi i nostri figli. Non si invoca un esercito di delatori, non siamo nella vecchia Germania orientale, ma una presa di coscienza generale, in cui la responsabilità civile non si limita alle lacrime e alle condanne del giorno dopo, vi sono scelte intermedie che si collocano nella terra di mezzo tra l’omertà e la denuncia, che possono rappresentare delle svolte salvifiche. Quando ci sono di mezzo i nostri figli l’interventismo è l’opzione più praticata, se allargassimo l’ombrello delle tutele genitoriali anche a quelli degli altri, quando li percepiamo in pericolo, cambieremmo tanti destini, anche quelli in balia di maschi privi di bussola. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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Domenico Barrilà