Gino Cecchettin: "L'educazione affettiva? Ce la chiedono i ragazzi"

Trasformare un dolore insuperabile in prevenzione e azione. È quello che ha fatto Gino Cecchettin, dando vita, un anno dopo il femminicidio di sua figlia Giulia, alla Fondazione Giulia Cecchettin, che ha appena raggiunto il traguardo dei primi 12 mesi di attività. Un anno di iniziative e di impegno attivo e instancabile in nome di un cambiamento culturale che contrasti la violenza di genere fin dalle sue radici più profonde. La Fondazione, istituita nell'ottobre 2024 per onorare la memoria della studentessa padovana uccisa l'11 novembre 2023, lunedì scorso ha fatto il bilancio dei suoi primi 12 mesi di attività illustrando i progetti avviati durante un evento a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano. La Fondazione ha concentrato il suo intervento soprattutto su educazione e prevenzione nelle scuole, con un'attenzione particolare alle nuove generazioni, ma anche sul sostegno concreto alle vittime. Il padre di Giulia, Gino – che la presiede - in questo ultimo anno ha portato la storia di sua figlia in decine di eventi pubblici e incontrato personalmente oltre 12 mila studenti e studentesse in tutta Italia. E non ha dubbi: è da loro che occorre partire, ed è loro che bisogna ascoltare per sradicare le dinamiche patriarcali che portano alla violenza di genere. Ma questo dibattito nelle scuole deve essere avviato, e accompagnato, da professionisti formati. In questo anno lei ha incontrato migliaia di studenti e studentesse. Le sembra si sentano coinvolti rispetto alla violenza di genere? È un dibattito partecipato? Molto coinvolti. Questo tema spesso in classe apre a dibattiti profondi. Quando si riesce a intavolare una discussione con loro si percepisce un forte desiderio di essere ascoltati, insieme a quello di capire cosa possono fare in prima persona. Penso che questo dovrebbe far riflettere noi genitori: la mia, la nostra generazione si porta dietro molti preconcetti e pregiudizi. Trovo che invece i giovani siano in ascolto. A discapito di quello che si sente dire la maggior parte dei ragazzi è proattiva, ha voglia di mettersi in discussione. Solo una piccolissima percentuale non segue questo cambiamento. La Fondazione supporta percorsi formativi in 24 scuole, ma l’educazione all'affettività in Italia non è ancora una materia obbligatoria in classe. Io inviterei le istituzioni ad ascoltare i ragazzi e le ragazze, perché non c'è scuola dove io sia stato in cui non ci abbiano chiesto di fare formazione sull’affettività. E lo chiedono non solo gli insegnanti, ma gli stessi ragazzi, dai più giovani a quelli prossimi alla maturità, perché questa nuova materia darebbe la possibilità ai ragazzi di affrontare questioni per loro molto complesse. Parlare di sentimenti ed emozioni non è come parlare di algebra, non esiste una formula universale da applicare. Serve dialogo, ma per gestirlo è necessario l'intervento di professionisti capaci. Faccio un appello alle istituzioni: ascoltate i bisogni dei ragazzi. La prevenzione è uno dei pilastri della Fondazione su cui state investendo molto. Assolutamente. Abbiamo sostenuto programmi educativi nelle scuole, in particolar modo un progetto in provincia di Padova dove lavoriamo sulla scuola secondaria di secondo grado, e abbiamo attivato un progetto per la formazione degli insegnanti della scuola primaria in partnership con l’Università di Firenze. E tantissimi altri progetti sono in corso d’opera. Come quello legato al teatro nelle scuole. Il secondo obiettivo è rappresentato dall’aiuto concreto alle vittime di violenza. Sì, di recente abbiamo avviato una partnership con Differenza Donna e dato vita al centro antiviolenza ‘Appia Annia Regilla’ a Roma, per accompagnare le donne in un percorso di protezione e uscita dalla spirale degli abusi. Sempre con l’associazione abbiamo anche siglato una sorta di protocollo per dare sostegno a chi ci contatta direttamente per chiedere aiuto, perché come Fondazione non abbiamo ancora una struttura per farlo da soli. Questo è molto importante. Ma collaboriamo anche con altri enti e istituzioni, e questo è il terzo pilastro: non cercare di fare tutto da soli ma unire le forze in questo percorso per un obiettivo comune. Fare rete. Avete in cantiere nuovi progetti che coinvolgeranno il mondo dello sport e la realtà del carcere? Sì, lo sport rappresenta un momento chiave nella formazione dei ragazzi, e in alcuni contesti si verificano casi di violenza o bullismo: lì vorremmo intervenire. E poi confermo che abbiamo in cantiere un progetto di ricerca sul carcere, ancora in fase di studio: l’obiettivo è a lavorare direttamente con soggetti che hanno agito violenza. Nessuno più di loro è in grado di spiegarci quello che è accaduto nella loro mente. Lei ha raccontato che prima della morte di sua figlia si sentiva “immune” quando leggeva sui giornali dei casi di femminicidio, perché “nel mondo normale certe cose non accadono”… Sì, mi sentivo immune prima della morte di Giulia. Per questo oggi facendo sensibilizzazione nelle scuole cerchiamo di fare capire ai genitori che il tema li potrebbe interessare anche se sembra lontano da loro: è stata questa la molla che mi ha spinto ad agire. Come è successo a me con Giulia, può succedere di non rendersene conto perché ci sentiamo immersi in un contesto culturale che sembra lontano dalla violenza, invece no: la violenza di genere non ha differenze geografiche né sociali. Nessuno di noi può definirsi immune. "Non tutti gli uomini". Negli ultimi due anni il dibattito ha coinvolto fortunatamente sempre più maschi, ma alcuni si sentono attaccati direttamente, sfilandosi dal discorso perché non agiscono violenza in prima persona. Sì, una parte di loro vive questa battaglia contro la violenza di genere come un attacco a loro stessi in quanto maschi, ma non è così: è invece un attacco alla mascolinità tossica. E il fatto che una parte di uomini si chiami fuori dicendo "io non sono così" di fatto pone un freno a questo cambiamento culturale. Ed è questo che dovremmo fare capire loro: non stiamo accusando i maschi, ma un modo di essere maschi. Da uomo oltre che padre, in questi due anni sente di aver compiuto anche lei un percorso personale di decostruzione della sua mascolinità? Sì, un percorso che nel mio caso era già iniziato con il matrimonio, nella convivenza quotidiana con mia moglie ho avuto modo di soffermarmi molto su questi aspetti. Indubbiamente molti anni dopo con la morte di Giulia questo percorso ha avuto un'accelerazione perché i momenti di riflessione sono stati tanti. E devo dire che adesso molti stereotipi di genere e retaggi patriarcali mi saltano all'occhio in modo molto più lampante rispetto a prima. La cosa positiva è che ho finalmente la possibilità invece di godere pienamente delle mie emozioni. Le faccio un piccolo esempio. Prego. Nel week end mi trovavo a una gara di danza sportiva, uno sport che pratico. A un certo punto è partita una musica che mi ha fatto emozionare, il Rondò veneziano, che mi ha ricordato di quando la ascoltavo con Giulia. Ho provato un'emozione bellissima e mi sono messo a piangere. Ma mi sono accorto che la gente attorno a me mi guardava stranita. Noi maschi purtroppo viviamo a metà. Se mi avessero insegnato a godere di tutte le emozioni, a poter piangere quando le mie emozioni me lo consentivano, probabilmente avrei imparato a vivere più pienamente fin da bambino. Che cosa le hanno insegnato i suoi figli? Giulia mi ha insegnato a sapere cosa bisogna lasciare andare e cosa invece bisogna prendere in carico, lei lo capiva in un secondo. Cercava di restare attaccata solo alle cose che davano valore alla vita, lasciando da parte le altre. Elena mi ha insegnato che nella vita ci si deve anche occupare di battaglie sociali senza chiedere nulla in cambio. Mentre in Davide, che ha 19 anni, vedo l’incarnazione dell’uomo moderno: mi insegna molto, e mi ha aiutato a indebolire retaggi e stereotipi legati al maschile. Lei incontra molte donne vittime di violenza, riceve lettere, ascolta testimonianze. La storia di Giulia ha avuto un impatto su alcune di loro. Ce n'è una in particolare che le è rimasta impressa? Tra le tante, quella di una ragazza incontrata durante un mio viaggio in Puglia l'anno scorso. Mi ha toccato la spalla e mi ha detto 'grazie a quello che fai sono rimasta in vita'. Dopo aver subito molti episodi di violenza, anche fisica, con l'aiuto dei genitori era riuscita a interrompere la relazione, e finalmente era potuta andare a trovare un’amica pugliese, il primo viaggio che si poteva concedere perché il suo ragazzo glielo proibiva. Giulia ha salvato altre vite. Questa è la nostra speranza: dare coraggio a chi ha capito di vivere una relazione tossica e ha le forze per potersene liberare. Come questa ho ascoltato tantissime altre storie di incontri di donne che mi raccontano di essere delle sopravvissute o di aver trovato il coraggio di denunciare. Ma anche storie di maschi che hanno capito che nella loro relazione erano troppo possessivi e che mi hanno promesso di intraprendere un percorso. Anche questi sono risultati importanti. Ma se le donne continuano a essere uccise significa che c'è ancora moltissimo da fare.

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Gino Cecchettin: "L'educazione affettiva? Ce la chiedono i ragazzi"

Giulia Mengolini