Dislessia, la pedagogista: “L’appello alle scuole: cogliete i segnali”

Marco ha 16 anni, frequenta il secondo anno di un liceo scientifico e, da quando ha memoria, fatica a leggere e a memorizzare. Per questo, alle elementari e alle medie si è sempre sentito “più stupido dei compagni”. Le cose sono cambiate solo quando, ormai iscritto al primo anno di superiori, gli è stato diagnosticato un disturbo specifico dell’apprendimento . Da quel momento, ha iniziato a usare gli strumenti compensativi: uno su tutti, le mappe concettuali. Che, però, una docente ha ritenuto che fossero un aiuto sproporzionato ai suoi disturbi e gliele ha proibite. A giugno Marco è stato bocciato e, dopo dieci anni di scuola, ora si sente “tornato di nuovo al punto di partenza”. La sua è una storia che ha molto in comune con quelle degli altri circa 350mila studenti e studentesse italiani che hanno una diagnosi di disturbo specifico dell’apprendimento e che ogni giorno lottano con diagnosi che arrivano in ritardo, didattica inadeguata alle loro esigenze e discriminazioni da parte di compagni e docenti. Per loro, l’Associazione italiana dislessia ha organizzato anche quest’anno la Settimana della dislessia che, dal 6 al 12 ottobre, promuoverà incontri di formazione in oltre 70 province italiane. “La parola chiave è ‘riconoscimento’: solo con la diagnosi lo studente e la studentessa scopre il proprio funzionamento e smette di sentirsi inadeguato o inadeguata . Ma, su questo,” la scuola italiana deve ancora lavorare molto”, sostiene la pedagogista e formatrice Aid Barbara Urdanch. Con lei, che da anni forma docenti sui Dsa, abbiamo parlato di diagnosi e segnali predittivi. Argomento che la professoressa, membro del comitato scientifico MyEdu, affronterà nuovamente dal vivo il prossimo mercoledì 8 ottobre, dalle ore 18.00 alle ore 19.00, al Museo dei Bambini di Milano, dove sarà a disposizione delle famiglie per presentare quali sono i segnali predittivi dei disturbi dell’apprendimento e imparare come - attraverso la scelta di un metodo di studio personalizzato, l’utilizzo di strumenti e risorse compensative - si possa supportare il percorso di studi di ogni studente. Professoressa, quest’anno la legge 170/2010 che riconosce ufficialmente i Disturbi specifici dell’apprendimento compie 15 anni e le diagnosi continuano a crescere. Che bisogno c’è di una “Settimana della dislessia”? Partiamo da una premessa: la dislessia è solo il disturbo più conosciuto, ma noi vogliamo trattare e sensibilizzare su tutti e quattro i Dsa. E c’è molto bisogno di farlo, anche a distanza di 15 anni dalla promulgazione di quella legge che funziona bene ma potrebbe funzionare meglio. Ce n’è bisogno in virtù di una parola, di una potenza pedagogica incredibile, che la stessa norma menziona all’articolo 1: “Riconoscimento”. La legge ha stabilito una volta per tutte che gli studenti e le studentesse con DSA non scrivono o leggono male perché sono pigri o svogliati, ma perché hanno un funzionamento neurodivergente. E noi abbiamo il compito di riconoscere i loro funzionamenti e di farlo il prima possibile nel percorso scolastico. Quali sono i segnali che possono suggerire a famiglie, studenti, studentesse e docenti la presenza di un Dsa? Mi deve concedere un’altra premessa. Prego. È importante non parlare mai di sintomi in riferimento ai Dsa, ma di segnali predittivi, perché non si tratta di patologie ma di variazioni “naturali” del cervello. E i modi per riconoscerli sono moltissimi. A volte, si tratta di bambini e bambine che faticano a “giocare con le parole”, cioè, in linguaggio tecnico, nell’ambito metafonologico. Altre volte gli studenti e le studentesse hanno difficoltà nella contestualizzazione del tempo. Faccio un esempio: se io dico a una bambina con Dsa che “la prossima settimana andiamo dalla nonna”, lei potrebbe tornare da me dopo 5 minuti e rispondere “è arrivata la prossima settimana, andiamo dalla nonna?”. O ancora: potrebbero avere una memoria di lavoro fragile e non imparare nemmeno le canzoncine che si insegnano nell’ultimo anno della scuola dell’infanzia. La scuola deve pre - occuparsi di tutti questi segnali predittivi: la legge 170/2010 invita ad occuparsene fin dalla scuola dell’infanzia. Le diagnosi, però, spesso sono tardive. Alla primaria i certificati non arrivano a 50mila, contro i 112mila della secondaria di primo grado e i 192mila della secondaria di secondo grado. Secondo lei, perché? In certi casi, manca la consapevolezza e si sottovalutano i segnali predittivi. Ma non è sempre così. Prima di tutto, non dobbiamo clinicizzare i bambini: non è possibile fare diagnosi di Dsa a partire dalla prima elementare; i primi certificati arrivano dal secondo o dal terzo anno. In secondo luogo, non tutti i disturbi sono uguali. La discalculia, ad esempio, viene diagnosticata più tardi perché ci vuole più tempo per far sviluppare pienamente alcuni meccanismi di algoritmo legati alla vera e propria matematica. Ma si tratta di un disturbo che ha un impatto molto forte su tutta la vita dello studente e della studentessa: chi ha discalculia, per esempio, può far fatica ad operare con i numeri fino a 10, o anche a gestire i concetti di “sopra” e “sotto”. Dsa come la discalculia, dunque, non hanno un impatto solo nell’apprendimento ma anche nella vita di tutti i giorni? Certo. Questi studenti e queste studentesse faticano anche a comprendere concetti come la somma o la sottrazione. Oppure a orientarsi: a una persona con Dsa potrebbe far fatica a contestualizzare “che abbiamo un appuntamento alle 14”. Dobbiamo dirle “dopo pranzo”, altrimenti potrebbe disorientarsi, quindi dobbiamo usare riferimenti spazio-temporali riconoscibili e non numeri. Dunque, quando arriva la diagnosi di Dsa, cosa cambia per studenti e studentesse? Nel momento in cui arriva la diagnosi, possiamo iniziare a dare un nome alle cose. Il primo risultato è che lo studente e la studentessa capisce il proprio funzionamento e smette di sentirsi più incapace dei compagni e delle compagne. Ma quello è anche il momento in cui gli adulti devono iniziare ad attivarsi per supportare le caratteristiche di ogni alunno e alunna. Purtroppo, su questo, c’è ancora strada da fare: una bambina con Dsa che ho seguito, per esempio, era costretta dalla docente a fare gare di tabelline e, dopo aver perso, a restare seduta con la testa appoggiata sul banco. Non ho bisogno di spiegare quanto questo atteggiamento sia antipedagogico. È vero, come dicono molti, che in questo momento c’è un’epidemia di diagnosi a scuola? C’è tanta ignoranza sull’argomento. È vero che le diagnosi crescono, ma succede perché riconosciamo molti più i Dsa: è cambiato lo sguardo sul tema e tutte le fasce della popolazione iniziano a essere più sensibili. Ma c’è ancora molto lavoro da fare, perché il divario in Italia è molto ampio: al Nord il 7-8% degli studenti ha diagnosi di Dsa, mentre al Sud siamo attorno al 2%. Ovviamente questa differenza è dovuta a una differenza di sensibilità e/o risorse per diagnosticare. Le diagnosi, in generale, non saranno mai troppe. A parer mio, i disturbi di molti studenti e studentesse restano ancora sommersi e, mentre gli alunni e le alunne cercano di apprendere senza certificato, la scuola spesso agisce seguendo un metodo solo: fare quello che fa bene alla maggioranza degli studenti e delle studentesse, con un solo metodo che deve bastare a tutti e tutte. Cosa manca ancora alla scuola per trattare sostenere i disturbi specifici dell’apprendimento? È molto semplice: la consapevolezza che non tutti e tutte funzionano nello stesso modo e, soprattutto, non tutti e tutte funzionano come i docenti e le docenti vorrebbero che funzionassero.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Dislessia, la pedagogista: “L’appello alle scuole: cogliete i segnali”

Andrea Ceredani