La staffetta partigiana Flora Monti: "Ero una bambina, ma non avevo paura"

Flora Monti da che parte della storia stare lo sa subito. Non ha ancora neppure 13 anni quando accetta di essere una staffetta partigiana. Poco più che una bambina, che la guerra fa crescere in fretta, dandole presto la maturità e la consapevolezza di una donna. Della bimba invece ha, giustamente a quell’età, un po’ di incoscienza. Così quando nell’aia di casa sull’Appennino tosco-emiliano arrivano i partigiani della Brigata 66, a quella richiesta lei risponde subito di sì e offre il suo passo e le sue trecce per nascondere e poi consegnare i messaggi dei partigiani. L’abbiamo incontrata nella sua casa di San Lazzaro di Savena, nel bolognese, dove all’età di 95 anni vive da sola, per salvaguardare la sua autonomia e la sua libertà. Gli occhi sono vivaci come quelli della bambina che 80 anni scelse con coraggio di dare il suo contributo alla lotta nazionale di Liberazione contro il fascismo e contro il nazismo. È minuta Flora, ma la voce è vigorosa e la voglia di raccontare e di testimoniare preziosa per chi l’ascolta. Una storia unica, sia perché Flora Monti era solo una bambina con un coraggio e una determinazione senza pari, sia perché ormai a poter dare testimonianza della Resistenza sono rimasti in pochissimi. “Non pensavo alla morte e non avevo paura” ci racconta Flora, come se fosse la cosa più ovvia. Eppure, i bambini hanno paura persino del buio. Lei no. Lei ha sentito troppi racconti del nonno picchiato dagli squadristi perché non voleva prendere la tessera fascista. Una volta lo avevano costretto anche a camminare sui ricci secchi delle castagne per ore e quelle ferite e quel dolore lo avevano accompagnato per più di un anno. E lei lo aveva visto soffrire. Ricorda tutto. “Io vivevo con la mia famiglia a Monterenzio, mia mamma Maria aveva studiato da levatrice ma poi faceva la contadina come mio papà Olindo. Con noi c’era nonno Achille che mi raccontava sempre di come lui avesse rifiutato di prendere la tessera fascista. In famiglia eravamo tutti antifascisti, in giro si sapeva. Per questo pochi giorni dopo l’Armistizio una mattina mio padre trovò nell’aia una ventina di ragazzi fuggiti dal distretto militare di Bologna con ancora indosso la divisa. Mia madre li rivestì con gli abiti dei miei due fratelli maggiori che erano in guerra e poi si dispersero nella montagna e formarono la prima brigata partigiana della zona, la 66ma Brigata Garibaldi Jacchia”. Fu allora che le chiesero di fare la staffetta. Sulle montagne i partigiani avevano bisogno di comunicare tra un gruppo e l’altro e l’unico sistema era utilizzare delle staffette con dei messaggi scritti in bigliettini che potevano essere nascosti nei vestiti. E i soggetti ideali per non destare sospetti erano le ragazze. “Allora non c'era mica il telefono, non c'era mica niente. Quindi le notizie non si potevano trasmettere e la staffetta partigiana doveva portarli fisicamente. Io avevo dei bei capelli lunghi raccolti in trecce corpose dove mia madre infilava i bigliettini che dovevo consegnare. Non andava sempre liscia. I boschi erano pieni di tedeschi. Ma io cercavo di correre come una gazzella e fare quello che dovevo fare. E se sentivo qualche rumore, a volte mi avvinghiavo al tronco di un albero bello grosso che mi potesse nascondere e far riprendere fiato. La curiosità per lei non deve esistere. Sa bene che non deve leggere quei biglietti. “Se li avessi letti e mi avessero fermato, magari avrebbero potuto torturarmi e costringermi a rivelare l’informazione che stavo consegnando”. Poi però si ricorda di quella volta in cui ha davvero pensato di morire e la sua voce trema, come se fosse ancora là sull’Appennino. L’avevano spogliata lasciandola in mutande per trovare quel bigliettino. “Due tedeschi mi fanno togliere la giacchetta e hanno strappato tutta la fodera per vedere cosa ci fosse dentro. Poi mi hanno ordinato di togliere la camicia e insomma per tenerla corta sono rimasta in mutande e canottiera. Hanno persino allargato l’elastico delle mutande che mi cuciva mia mamma per guardare dentro, Ma niente. È quando mi hanno chiesto di togliermi le scarpe che ho pensato “è finito tutto”. Ho tolto la sinistra subito, perché sapevo che non c’era niente. Ma quando ho dovuto togliere la destra, ecco, lì sono diventata un pezzo di ghiaccio. Mi ripetevo “adesso se viene fuori, mi fucilano”. E allora ho pensato a Edera De Giovanni e ho detto tra me e me “Edera, sto arrivando”. Invece il bigliettino era si dentro la scarpa, ma col pollice lo avevo spinto talmente in fondo che non è uscito”. È un fiume in piena di aneddoti Flora. “Una notte sentimmo bussare alla porta: erano tre ufficiali, due inglesi e un americano, che cercavano rifugio e dopo qualche giorno ci hanno chiesto di fare loro da guida nei boschi. Li accompagnammo, io e mia madre, e loro ci dissero che se si fossero salvati avrebbero sparato un colpo sul campanile del Monte delle Formiche. E successe proprio così. Poi, dopo la guerra, ci arrivò una lettera da Winston Churchill che ringraziava mia madre per aver salvato i due inglesi”. Non ha mai smesso di sentirsi partigiana Flora Monti. Lo è oggi tanto quanto lo era allora, preoccupata di consegnare un messaggio ai giovani di oggi: “Si fa presto a perdere la libertà. E la libertà vuol dire tanto. Impegnatevi e non la date per scontata. C’è chi può provare a togliervi anche la libertà di dire quello che pensate. E voi dovete lottare ogni giorno per difenderla”. La storia di Flora Monti è raccontata in un film che è in sala. Il documentario "Flora" con la regia di Martina De Polo è stato presentato in anteprima lo scorso anno al Bif&st di Bari ed è stato visto in oltre cento località in Italia, molto spesso con proiezioni dedicate alle scuole.

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