Come parlare di femminicidio ai bambini?

“Mamma, io non mi fidanzerò mai perché non voglio essere uccisa”. Parole angoscianti, ancora di più se si pensa che a pronunciarle è una bambina delle elementari. Esprimono l’ansia collettiva che in questi giorni è esplosa dopo gli ennesimi femminicidi, quelli di Sara Campanella e Ilaria Sula. Insieme alla rabbia di non poter fare altro che continuare a contare i nomi delle vittime. Come si affrontano temi come questi con i bambini e gli adolescenti? I genitori hanno a disposizione gli strumenti adatti per affrontare argomenti così complessi? E le scuole, quando intervengono, come agiscono sulla prevenzione? Su Sky Tg24 Insider lo abbiamo chiesto a Simona Bernardini, psicologa e psicoterapeuta psicoanalitica, dal 2006 volontaria di Telefono Rosa, la prima associazione italiana dal 1988 al fianco delle donne e dei minori, che lavora con diversi progetti nelle scuole per combattere ogni forma di violenza attraverso una specifica formazione in classe. Cosa si manifesta una paura simile espressa da una bambina? Si tratta senza dubbio di una frase angosciante, anche per un genitore che se la sente rivolgere. Ma possiamo leggerla anche come un segnale di sviluppo, perché nelle scuole il rimando che ci sentiamo spesso dire è “ma non esageri, non si arriverà mai a questo…”, poi però al femminicidio ci si arriva - e molto spesso - ma la sensazione è che accada sempre a qualcun'altra. Perché in termini psicologici è più semplice allontanarci per sentirci al sicuro. Quindi quella frase, per quanto allarmante, ci fa capire che in quella bambina si sta iniziando a formare un livello di consapevolezza. Come può rispondere un genitore di fronte a una manifestazione di paura come questa? Innanzitutto permettendole di raccontare che cosa prova, convalidare quell’emozione e tentare di comprendere da dove si origina. Se una bambina nutre questa paura è possibile che qualcosa le stia succedendo, come è possibile che sia soltanto influenzata dai media e da quello che sente al telegiornale. L’importante è non fare cadere mai nulla di quello che dicono i bambini rispetto a queste questioni. Non fare finta che non sia importante o che non possa mai succedere: devono sapere che se ne può parlare. È importante che ci sentiamo tutti coinvolti senza però alimentare il clima del terrore. La violenza di genere non deve essere un tabù, a nessuna età. Rassicurare senza sminuire può essere una strada giusta? Se sì, come? I femminicidi purtroppo sono una realtà. Ma dobbiamo anche spiegare ai nostri figli che nonostante la paura della violenza esista e sia valida, pensare di non avere una relazione per evitare il problema non rappresenta una soluzione. Probabilmente ci sarà un momento della vita di quella bambina in cui avrà voglia di avere una persona al suo fianco. Possiamo spiegare a lei, e alle altre, che l’importante è che la persona che sceglierà sarà in grado di rispettare chi è lei, la sua personalità, i suoi gusti, la sua vita. In tutte le relazioni violente c’è il tentativo di sminuire l’altro, mentre i più piccoli devono sapere che in un rapporto in cui non senti di essere te stessa probabilmente c’è qualcosa che non funziona. Se invece senti che puoi essere chi vuoi e ti viene riconosciuto un valore, non devi avere paura. Perché chi rispetta accetta anche i no. Come si può spiegare il consenso ai bambini? Innanzitutto in maniera diversa a seconda dell’età. Facciamo l’esempio del possesso: per un bambino di tre anni tutto quello che vede è suo. Per i bambini piccoli è molto complicato accettare di non essere scelti. Va spiegato loro che anche se una bambina sta giocando con te, a un certo punto può pure decidere di giocare con qualcun altro. Ma tu non per questo devi aggredirla o farla uscire dal tuo universo. Questa è la logica che invece origina i femminicidi. Va insegnato che si deve imparare a tollerare di non essere sempre al centro. Anche un "no" va bene, anche se può fare male. Questo vale anche per gli adolescenti. Certo, anche ai più grandi va insegnato che non è il controllo della vita dell’altro che fa una relazione, su questo però siamo molto indietro. La maggior parte delle ragazze considera ancora la gelosia come una conferma dell’amore ricevuto. È complicato spiegare loro che l’amore non è quello che ti impedisce di fare qualcosa, ma che ti libera. Per prevenire la violenza di genere è fondamentale lavorare sulle emozioni? Assolutamente sì. Oggi i ragazzi e le ragazze si conoscono online. Ci si scrive, ci si piace, ci si incontra. Questa modalità rappresenta però un problema rispetto alle emozioni, che hanno sempre bisogno di un tempo per essere elaborate. Una delle cose che proviamo a fare in classe è lavorare su cosa vuol dire essere gelosi di una ragazza, così come sulle fantasie di possesso, ovvero l’idea che se stai con me non puoi vestirti o comportarti in quel modo. Come spiegate ai ragazzi che la gelosia non è sintomo di amore? Lavoriamo partendo da un presupposto fondamentale: facendo capire al ragazzo in questione che la gelosia è un’emozione che sta provando lui. Ma con quell’emozione, che è appunto sua, cerca di modificare il comportamento di un'altra persona. E questo non può funzionare: è lui che deve lavorare sulla sua insicurezza, non la ragazza che deve cambiare abitudini. Far comprendere questo è molto utile, ma allo stesso tempo difficile perché serve tempo, oltre alla capacità del ragazzo di saper stare con un’emozione scomoda. Un urlo o uno schiaffo sono degli agiti che servono per liberarsi il prima possibile dell’emozione negativa che si sta vivendo. Dobbiamo invece far lavorare i ragazzi sulla possibilità che si possa tollerare quella frustrazione. Spesso bambini e bambine sono vittime di violenza assistita. Vivono in contesti di violenza tra i genitori e ne sono influenzati. Sì, questo è un grave problema. Oggi la violenza assistita è finalmente riconosciuta come aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia. Se un bambino ha vissuto in casa una dimensione di violenza in cui la donna viene azzerata e zittita, è probabile che si identifichi con l'aggressore. Le bambine che hanno vissuto in contesti simili invece tendono a ricreare quel modello femminile 'sottomesso', a sottostimare situazioni simili, o in certi casi addirittura a ricercare incosciamente un aggressore. Assistiamo a meccanismi simili anche nelle sedute di psicoterapia che facciamo con le vittime di violenza ospiti nelle case rifugio di Telefono Rosa. Capita che bambini o bambine raccontino di vivere situazioni di violenza in casa? Purtroppo come Osservatorio non possiamo raccogliere le loro testimonianze in una dimensione terapeutica, perché per la consulenza psicologica serve il consenso di entrambi i genitori. I bambini con cui entriamo in contatto sono quasi sempre con le madri nelle case rifugio con un provvedimento di sospensione del tribunale, e senza il consenso del padre non possiamo parlare direttamente con loro. I bambini dialogano però con le operatrici delle case rifugio e in molte situazioni manifestano o le modalità del padre o ripropongono la paura che vivevano. Mi fa un esempio? In una nostra casa rifugio c'erano come ospiti tre bambini insieme alla madre, e ogni sera alle 20 i piccoli erano abituati a sedersi sotto al tavolo. Dopo un po’ di tempo hanno raccontato alle operatrici che quello era l’orario in cui il padre tornava a casa e loro avevano imparato che dovevano mettersi al riparo. Perché lui avrebbe picchiato o loro o la madre. Per loro poter vivere in un contesto più sereno è già per certi versi terapeutico, ma poter intraprendere con loro un intervento specifico di psicoterapia - senza il consenso dell'aggressore - sarebbe fondamentale.

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