Divieto di schwa nelle scuole, Accademia della Crusca: “Creano ambiguità”

Dal ministero dell’Istruzione assicurano che la decisione di vietare schwa e asterischi nelle comunicazioni scolastiche ufficiali è giunta in seguito a segnalazioni arrivate da tutta Italia. Molti istituti impiegherebbero questi segni grafici, intendendoli come più inclusivi, per evitare l’adozione del maschile sovraesteso . Ma il dicastero la ritiene una scelta che non ha “rispetto delle regole della lingua italiana”: così, la capo dipartimento Pamela Palumbo ha inviato una circolare a tutti i dirigenti scolastici per ribadire che schwa e asterischi rischiano “di compromettere la chiarezza e l’uniformità della comunicazione istituzionale”. “L’Accademia della Crusca – continua la circolare – ha più volte evidenziato che queste pratiche non sono grammaticalmente corrette e che il loro impiego, specialmente nei documenti ufficiali, ostacola la leggibilità e l’accessibilità dei testi”. Il Ministero fa riferimento a un testo del 2021, in cui gli accademici suggerivano di non usare asterischi in testi di legge o comunicazioni pubbliche. Perciò, abbiamo contattato Paolo D’Achille, presidente dell’Accademia della Crusca, per spiegarci il loro parere. Professore, l’opinione che avete è la stessa del 2021? All’epoca io ero responsabile del servizio di consulenza della Crusca e, perciò, sono stato tra i primi a scrivere un intervento sul tema. Ricordo che ci erano arrivate moltissime domande e diedi la risposta che ribadisco ora: cioè che l’italiano, come ogni lingua, ha una sua storia e una sua tradizione. E che i generi grammaticali, nel passaggio dal latino alla nostra lingua, si sono ridotti a due. Il neutro in latino, per di più, era riferito quasi esclusivamente alle cose, quindi non agiva sulla determinazione delle persone. Quindi, lei sconsiglia l’uso di schwa e asterischi? Capisco che il divieto sia, per certi versi, antipatico perché vorremmo avere la massima liberalità. Ma ci dimostra anche che questi usi, nella comunicazione ufficiale, esistono. Quindi, vanno quantomeno contenuti, perché rischiano di ostacolare la chiarezza di un testo. Saltano, ad esempio, tutti i riferimenti anaforici e non si capisce più niente. Ci sono differenze, però, tra la comunicazione istituzionale e quella informale? Sì, certo. Non è un problema se in un messaggio tra amici scrivo “car* tutt*”. Va benissimo. Basta pensare a quante abbreviazioni usiamo nei nostri scritti: doc, prof, ss, ecc. Ma, se parliamo di un regolamento, o di una comunicazione che richiede un uso standardizzato della lingua, allora quello non è il contesto per fare sperimentazioni. Usando sempre il genere maschile, non si rischia di adottare un linguaggio poco inclusivo? Il genere grammaticale è diverso dal sesso biologico e dal genere. Non c’entrano niente le due cose. In più, la lingua è un dato storico: nasce e cambia, ma comanda sempre l’uso. Non si modificano dall’alto le lingue. Altrimenti, sarebbe con la scrittura che diciamo cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ma non è così. Quanto conta, però, il linguaggio che usiamo per modellare la realtà che ci circonda? Insomma, quanto sono “importanti le parole”? Moltissimo. È vero che la lingua è anche un modo per interpretare la realtà, ma non la forgia. Prima facciamo delle invenzioni e, poi, diamo loro un nome. Non vale il viceversa. Perciò, non possiamo trasferire una mentalità contemporanea alla lingua del passato, che continua comunque a esercitare un influsso molto importante sulla lingua del presente. Dall’altra parte, se qualcuno vuole portare avanti ideologicamente la propria battaglia per usi individuali è libero di farlo, ma la lingua deve essere un patrimonio comune. E cosa succede quando cambia la “mentalità moderna”? Penso, per esempio, a una nuova sensibilità verso la fluidità di genere. Con il lessico non ci sono problemi: le parole cambiano spesso per descrivere nuovi concetti. Ma toccare la morfologia è molto diverso, andiamo a intaccare un elemento strutturale della lingua. E, se lo facciamo, quella lingua dopo non c’è più. Faccio un esempio sempre con l’italiano: dal latino abbiamo perso il neutro e abbiamo perso le consonanti finali, per dirne solo due, ed è nata la nostra lingua. Ma era una fase di scarso controllo linguistico, in cui effettivamente la lingua andava alla deriva. Non è cambiata per una questione ideologica. Quindi, in sostanza, secondo lei il maschile può sostituire la schwa l’asterisco senza discriminazioni? Sì. In italiano, se dico che “esco con dei miei amici”, non escludo che nel gruppo ci siano anche delle amiche. Per quanto riguarda la fluidità di genere, si può usare l’accordo al maschile quando ci si sente uomo e, quando ci si riconosce nel genere femminile, si può usare l’accordo femminile. In più, ritengo che l’inclusione si manifesti più nei comportamenti che nel linguaggio. In questo caso, credo che i fatti valgano più delle parole.

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