Essere apolidi in Italia, come si vive senza cittadinanza

Nedzad Husovic lavora da dodici anni come educatore, ma non è un pedagogista. Si è formato frequentando corsi a pagamento, ma non ha la laurea. È nato a Roma e ha vissuto nel quartiere di Centocelle per 33 anni, ma non è italiano. E non è neppure bosniaco, nonostante i suoi genitori siano nati in Jugoslavia. Nedzad Husovic è una delle 3.000 persone apolidi, o a rischio di esserlo, che vivono in Italia. La loro è la condizione di chi non è considerato cittadino “di nessuno Stato nell’applicazione della sua legislazione” e, per questo, vede molti dei propri diritti non tutelati dal Paese in cui risiede. Un recente report Unhcr ha monitorato la loro provenienza e le loro condizioni, rivelando che la maggior parte degli apolidi in Italia fanno parte di comunità rom originarie della ex-Jugoslavia e che, sulla base delle parziali informazioni a disposizione, gli altri gruppi più frequenti provengono da Stati dell’ex Urss, Cuba, Cina e Palestina. Per loro, la vita in Italia è un percorso a ostacoli. “A sedici anni ho dovuto smettere di andare a scuola – racconta Husovic – perché non avevo un permesso di soggiorno e, anche se poi mi sono pagato molti corsi alternativi, questo mi ha tarpato le ali nella vita”. Vivere da "invisibili" In pratica, sono “invisibili”. Così la spiega, sinteticamente, Marco Brazzoduro, professore di Politica sociale alla Sapienza di Roma. Che premette un distinguo: “Ci sono gli apolidi di fatto e gli apolidi di diritto. Ai secondi è stato riconosciuto lo status in seguito a una sentenza del Tribunale o a un procedimento presso il ministero degli Interni. I primi sono quelli che, semplicemente, non sono registrati come cittadini all’anagrafe di nessuno Stato”. In entrambi i casi, sostiene Unhcr, “l’apolidia è una grave violazione dei diritti umani” che può avere conseguenze su ogni aspetto della vita di una persona: “Ottenere un certificato di nascita, andare a scuola, ricevere assistenza sanitaria, creare una famiglia o ereditare una proprietà”. Nella vita di Nedzad Husovic queste definizioni ‘da manuale’ hanno una traduzione molto pratica. “Fino a 25 anni, l’età in cui ho ottenuto il permesso di soggiorno e la carta d’identità, non potevo fare quasi nulla – spiega – neppure prendere la patente, per fare un esempio”. Ma anche con il documento le difficoltà non mancano: “La situazione è sempre precaria – racconta – Basta perdere la carta d’identità una volta per rendersi conto dell’iter complicatissimo che dobbiamo affrontare da apolidi per ottenerla di nuovo”. E nel lavoro le cose vanno ancora peggio: “Ai colloqui non basta parlare perfettamente italiano perché il datore, leggendo che non c’è cittadinanza in alcun Paese, non ti scarti subito. Nel mio caso, poi, si aggiunge lo stigma verso le persone rom”. Anche le cure mediche sono legate all’ottenimento del permesso di soggiorno: “Da giovane ho dovuto più volte rinunciare, banalmente, a un antibiotico perché non avevo il medico di base che potesse prescrivermelo”, confessa Husovic. È per tutelare questi diritti che Unhcr individua alcune buone pratiche in materia di apolidia. In primis, l’agenzia suggerisce di potenziare il raccoglimento di dati sulle persone apolidi; poi, di adottare un quadro giuridico esaustivo per migliorare le procedure di determinazione dell’apolidia; infine, di promuovere campagne di sensibilizzazione rivolte a tutta la popolazione. La buona notizia – sostiene Chiara Cadoletti, responsabile Unhcr per il nostro Paese – è che “l’Italia ha già compiuto passi significativi nella protezione degli apolidi”. Ma altri devono essere ancora percorsi in direzione delle “persone più vulnerabili”. Come si diventa e come si smette di essere apolidi Nel caso di Nedzad Husovic, come in quello di centinaia di altre persone appartenenti a comunità rom, l’apolidia è il risultato di una lettera non recapitata. “Da piccolo, i miei non mi iscrissero all’anagrafe bosniaca. E in Italia, vivendo in un campo rom, siamo sempre stati cittadini di ‘serie Z’ – sintetizza – A 17 anni dovrebbe arrivare a casa una lettera per ottenere la cittadinanza. Sarebbe dovuta arrivare anche a me, che ero figlio di bosniaco, ma nei campi rom non la recapitano mai. E, quando mi sono interessato a 19 anni della questione, era troppo tardi per ottenerla”. Più che di un cavillo burocratico, secondo il professor Brazzoduro, in questi casi si tratta di un problema culturale: “Tutti gli apolidi di fatto dovrebbero compiere il passaggio per avviare la procedura di riconoscimento, ma molte persone rom non lo sanno neanche e ritengono erroneamente, essendo nati in Italia, di avere la cittadinanza italiana. Ma da noi vige lo ius sanguinis e non lo ius soli”. Così, per Husovic, l’unica soluzione a disposizione è rimasta la richiesta di un permesso di soggiorno per motivi speciali: “Di fatto ero paragonato a una persona migrante che scappa da una guerra, a un rifugiato, ma io ho sempre vissuto in Italia e già all’epoca lavoravo qua da anni”. Oggi, dopo numerosi ricorsi e anni trascorsi tra tribunali e studi di avvocati, ha ottenuto lo status di apolide: “Un anno e mezzo fa sono riuscito a dimostrare che non risultavo iscritto all’anagrafe bosniaca e lo Stato è stato costretto a riconoscermelo”. A questo punto, spiega il professor Brazzoduro, la cittadinanza è solo questione di tempo ma Husovic continua a non fidarsi: “Dopo tutto questo tempo ho capito che la burocrazia italiana è un mare in tempesta, chi sa quando la otterrò. E, comunque, non credo che in quel momento mi sentirò così sollevato. Lo Stato avrà solo fatto il suo dovere e penserò ‘alla buon’ora’, perché io sono già italiano”.

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