La mia prima volta ad Auschwitz

“Quello forse è il bosco dove si è riparato Riccardo. Questo forse il forno dove hanno cremato Gianna. Chissà se è proprio in questo block usato dai medici nazisti che hanno torturato Elda”. Non è stato un “viaggio della memoria”, è stato un percorso per vedere con i miei occhi i luoghi, i posti concreti che hanno abitato la mia immaginazione per 50 anni e che hanno riempito i racconti di mia nonna e i miei pomeriggi con lei. Ci sono arrivato tardi ad Auschwitz Birkenau, dopo aver condito i racconti e forse le leggende della mia famiglia con lo studio, le letture, le interviste fatte per lavoro. Ma ancora, nonostante tutto, mi ha sorpreso, mi ha insegnato e mi ha, in parte, disturbato. Quando mio nonno andò da suo fratello Riccardo ad inizio ottobre 1943 per dirgli di lasciare casa, chiudere il negozio, fare attenzione, lo fece dopo che i nazisti avevano chiesto 50kg d’oro agli ebrei di Roma in cambio della salvezza. Ma le voci giravano e gli uomini ebrei giovani e forti, come lui e il suo unico fratello maschio e quasi coetaneo, si diceva potessero essere messi ai lavori forzati dagli occupanti nazisti. Mio nonno decise di non rischiare e trovò un piccolo appartamento subaffittato dove vivere anonimamente quei giorni. Del resto, sua moglie era incinta di quasi 8 mesi. Mia madre sarebbe nata poco dopo, partorita di nascosto in una soffitta di un ospedale, ma questa è un’altra storia. Dicevo: lui voleva assolutamente con sé il fratello maggiore, con la moglie e la figlia di due anni. Biondissima, con due occhi enormi. Ma Riccardo reagì malissimo. Prima accusò i miei nonni di essere esagerati e pessimisti. Poi, dopo le loro insistenze, diede un pugno sul bancone del suo negozio. “Io non me ne vado, io non ho cambiato la mia vita a causa dei fascisti e non la cambio per i tedeschi”. Pochi giorni dopo, la mattina del 16 ottobre del 1943, tra gli ebrei romani rastrellati ci furono anche Riccardo, la moglie Rita e la piccola Gianna. La sera prima, un venerdì sera, Riccardo e Rita erano andati come sempre dai genitori di lei per la cena di Shabbat. Avevano provato, come accadeva spesso, a lasciare la piccola a dormire dai nonni per avere un po’ di tempo per loro due. Ma la nonna quella sera non si sentiva bene, era stanca, e con rammarico aveva chiesto alla figlia di riportare la bambina a casa con sé. E Rita così fece. Dovette portarla con sé fino ad Auschwitz. Il rammarico della nonna divenne disperazione e rimorso. Cammino per il campo e quando arrivo alla rampa dove venivano selezionati i nuovi arrivati dai vagoni piombati cerco di immaginare il percorso di Gianna e sua madre. Mi spiegano che per morire col gas ci volevano 20 minuti, si soffocava piano piano, rinchiusi nelle grandi camere, accalcati come bestie prima del macello. Penso che in fondo Gianna fosse troppo piccola per rendersi conto. Mi auguro che per lei sia durato tutto meno di quel tempo infinito. La guida fornita ai turisti del museo di Auschwitz parla in maniera precisa ma meccanica, tradisce un tratto monotono tipico di chi fa un lavoro troppo ripetitivo. Ma è incaricata di parlare di ciò che non ha nulla di tipico, nulla di standard. La sua asettica precisione mi irrita. Ci descrive le sofferenze e i crimini nazisti, ma non racconta le storie. Quelle me le racconto da solo. Mentre ci mostra i crematori fatti saltare dai tedeschi per distruggere inutilmente le prove dell’orrore, ripenso a chi avrei potuto conoscere ed invece è finito lì dentro. Intorno ad Auschwitz ci sono tantissimi boschi. Siamo a gennaio, sono pieni di neve. Ottant’anni fa, si vede dalle immagini di archivio, di neve e di freddo ce n’erano molto di più. Riccardo all’arrivo non fu selezionato per le camere a gas. Aveva poco più di trent’anni. Fu messo al lavoro e superò, a quanto pare, le selezioni continue, l’orrore della schiavitù e le esecuzioni capricciose dei nazisti. Il 19 gennaio 1945 fu evacuato anche lui dai nazisti, insieme ai prigionieri ancora in grado di camminare. Spinsero migliaia di persone sulle strade verso la Germania, le famose marce della morte, per avere ancora un bottino di schiavi da sfruttare per l’industria di guerra. Riccardo camminava veloce accanto all’amico Luciano, anche lui romano. A un certo punto prese una storta, brutta. Camminare faceva male e chi rallentava troppo era freddato dai nazisti. “Lucia, io mi butto nel bosco appena i soldati si distraggono, non ce la faccio ad andare avanti. Se arrivi a Roma dì ai miei che sono vivo, e in qualche modo arriverò”. Fin da bambino, in famiglia, nessuno diceva: zio Riccardo è morto. Tutti dicevano: zio Riccardo è sparito. Si è buttato nel bosco e non è più tornato. L’amico Luciano invece era riuscito alla fine a salvarsi e a tornare a Roma e a riportare il messaggio di Riccardo. Morì 20 anni dopo, aiutando gli alluvionati di Firenze. Ma anche questa è un’altra storia. Nel campo il nostro gruppo con guida in francese si incrocia con altre due comitive turistiche di lingua inglese e polacca, riusciamo a ritrovarci grazie a un adesivo che ci hanno detto di mettere sulla giacca. Mi fa notare un compagno di tour che non è una soluzione felicissima visto dove ci troviamo. La guida si ferma davanti all’edifico dove le donne ebree, Rom e Sinti venivano ricoverate per essere sterilizzate con metodi sperimentali ed usate come cavie dai colleghi di Mengele, che invece si dedicava di più ai bambini e ai gemelli. Ho immaginato zia Elda che appena trentasettenne saliva le scale di quel luogo. L’aspetto dignitoso dell’edifico, migliore di quelli adiacenti, me lo ha reso ancora più spettrale. Ho ripensato al silenzio che ha sempre voluto tenere su questa esperienza. Lei infatti ce l’ha fatta. Ha raccontato tutto ai parenti, ma gli esperimenti subiti no. Finì ad Auschwitz ad aprile 1944 grazie ad una delazione fascista, ma tornò, a differenza di suo marito. All’osteria, dove li prelevarono, erano con il loro piccolo Angelino di poco più di un anno ed una coppia di amici, non ricercati, non ebrei. Arrivati i nazisti Elda ebbe la prontezza di dire all’amica: “Tieni, riprenditi tuo figlio che devo andare”. Glielo mise in braccio e riuscì a riabbracciarlo dopo un anno e mezzo. Soffrì per altri 25 anni, fino alla morte, per ciò che gli avevano fatto i “medici” nazisti. Mentre lascio Auschwitz e guido un po’ verso ovest, guardo i boschi e mi illudo di ricercare ancora Riccardo, di indovinare la macchia verde dove si è riparato e dove probabilmente fu scoperto e ucciso da un nazista. Comunque, anche in questo caso, ora ho un’idea un po’ più chiara di cosa vide e com’erano i luoghi dove ha vissuto l’inferno. Poi ripenso a mio nonno, che fino all’ultimo, anche dopo 50 anni sperò di vederlo ricomparire. Magari reduce dall’Unione Sovietica. Sperava lo avessero prelevato i soldati russi e lo avessero portato oltre cortina. Mentre mi allontano in auto mi scopro rammaricato di aver lasciato il campo senza un ultimo sguardo consapevole, una sorta di estrema occhiata d’addio. D’addio a cosa? Ad Auschwitz? Ai suoi orrori? Forse no. Avevo bisogno di salutare Gianna, Riccardo, Elda, li avevo appena conosciuti.

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