Come si studia nelle carceri minorili italiane?

“Se in adolescenza avessi avuto più strumenti per trattare la mia dislessia, forse avrei tenuto una penna in mano invece di una pistola” racconta Luca , ergastolano nel carcere di Rossano , che si è laureato qualche anno fa tra le mura della casa di reclusione. A molti altri detenuti, nelle sue stesse condizioni, non è garantito il diritto allo studio: ad oggi sono 40 i Poli universitari penitenziari funzionanti in Italia e ospitano circa 1.800 immatricolati, ovvero meno del 3% della popolazione carceraria. I più vulnerabili, però, sono gli studenti degli Istituti penitenziari per minorenni che ancora, dentro al carcere, affrontano la scuola dell’obbligo. Al 15 gennaio 2024, secondo un monitoraggio dell’associazione Antigone, i ragazzi detenuti nei 17 Ipm italiani erano 496, di cui 13 donne: 8 a Pontremoli in Toscana e altre 5 tra Napoli e Roma. I numeri sono in crescita da due anni e gli stranieri sono più della metà dell’intera popolazione carceraria . Per loro, sono attivati e garantiti corsi di italiano e delle altre discipline previste dal Ministero dell’Istruzione, che fornisce anche i docenti necessari all’insegnamento. “Non tutti i ragazzi vanno a scuola ovviamente – spiega Susanna Marietti, responsabile dell’Osservatorio minori di Antigone – Il diritto formalmente è garantito ma dovrebbe esserlo di più, perché la cultura e l’istruzione sono il vero fulcro dell’emancipazione da una vita criminale”. Come funziona la scuola nelle carceri minorili In realtà, la scuola dell’obbligo è sempre la stessa: dentro e fuori dagli Ipm. I docenti sono quelli che insegnano negli istituti tradizionali, sono selezionati tramite concorso pubblico indetto dal Ministero dell’Istruzione e perseguono gli stessi obiettivi formativi. Di conseguenza, anche nelle carceri si può bocciare e “rimandare” come nella scuola del mattino. A fare la differenza è il contesto. “I ragazzi negli Ipm non iniziano il 15 settembre e finiscono il 9 giugno – spiega Marietti – Spesso entrano, poi vanno in comunità, poi escono. Insomma, c’è discontinuità scolastica e i docenti devono inventarsi moduli brevi e alternativi”. A queste condizioni, gli insegnanti sono costretti alla sperimentazione: “Con la lezione frontale spesso nessuno ti ascolta, perché non sono ragazzi abituati a tenere l’attenzione in contesti scolastici. Perciò, i docenti si inventano dinamiche interattive e sono aiutati dai volontari delle varie strutture”. La formazione specifica, del resto, non è diffusa né capillare: “Non siamo assolutamente preparati all’insegnamento in carcere – confessa Mario Tagliani, per oltre trent’anni insegnante al Ferrante Aporti di Torino – Un tempo erano previsti corsi di formazione ma poi, evidentemente per una questione di costi, sono stati soppressi”. Dal concorso, perciò, si entra direttamente nelle aule delle carceri. Criticità e lacune Dentro agli Ipm, è complesso anche misurare il successo formativo degli studenti. Che non può adottare gli stessi parametri della scuola tradizionale: “Sono previste personalizzazioni per rispondere al meglio ai bisogni specifici dei minori in percorso di reinserimento sociale”, commenta a Sky tg24 la dirigente del Dipartimento per la giustizia minorile, Cira Stefanelli. Che spiega che non esistono dati aggregati a livello nazionale sull’abbandono scolastico , ma solo numeri condivisi dalle direzioni carcerarie con gli Uffici scolastici regionali. Cui si sommano i monitoraggi di Antigone sui corsi effettivamente attivati, che mostrano le lacune del sistema scolastico penitenziario. Specialmente nell’introduzione dei detenuti al mondo del lavoro. Ad Acireale e a Catania, la regione Sicilia ha interrotto l’erogazione di corsi di formazione professionale dal 2013/14. Per sopperire alla mancanza, il Dipartimento di giustizia minorile ha finanziato un corso di ristorazione che, però, non rilascia alcun attestato ufficiale. A Bari, invece, la formazione professionale è totalmente assente a causa della carenza di fondi regionali. Ovunque, in generale, si legge nel report di Antigone per il 2024, “vista la breve permanenza media degli studenti negli Ipm, è difficile organizzare corsi professionalizzanti veri e propri” ma l’alfabetizzazione e la scuola secondaria di primo grado sono sempre garantite. Con qualche eccezione positiva: a Treviso è possibile frequentare il biennio delle superiori a indirizzo alberghiero così come a Roma, dove sono stati attivati anche dei brevi percorsi di formazione per parrucchieri, falegnami e giardinieri. Il valore dell'esperienza Nei primi anni ’80, nelle sale del Ferrante Aporti di Torino entrò il Commodore 64. Qualche studente iniziava a battere sulla tastiera del computer il proprio compito, lo correggeva e poi lo stampava. Tenendo il foglio tra le mani, lo guardava per qualche decina di secondi, prima di consegnarlo al professore. “Erano felicissimi perché il pc non lascia traccia degli errori precedenti e mi dicevano ‘allora so scrivere anche io’ – racconta il docente Mario Tagliani – Gli Ipm sono spesso popolati da ragazzi che sanno scrivere a malapena la propria firma o sono analfabeti di ritorno. Anche solo stare seduti a un banco è difficile per loro, avendo vissuto l’adolescenza in strada”. Per questo, le lezioni del prof Tagliani iniziano sempre dall’ascolto: “Nel tempo, ad esempio, ho scoperto il valore che ha per loro l’hip hop e adesso non chiedo più di scrivere un tema ma una canzone rap”. Così, dopo anni di lavoro, “le soddisfazioni arrivano anche per i docenti”: “Un ragazzo mi ha ospitato a Londra, dove ormai ha ricostruito la propria vita, mentre altri mi hanno chiesto di rimandare la scarcerazione per partecipare al torneo di calcetto organizzato nel penitenziario”. Il lavoro si fa più duro quando alle difficoltà degli Ipm, si sommano quelle dettate dal sovraffollamento delle strutture. “Abbiamo un problema qua al Nisida di Napoli – racconta il docente Luigi Salvati – siamo una settantina ma dovremmo essere meno. Anche per questo, coinvolgo gli studenti che sono detenuti da più tempo come tutor per gli altri: in questo modo, formano un gruppo”. L’importante, per il professore, è costruire un ambiente in cui i ragazzi detenuti si sentano “sicuri e fiduciosi”: per questo dalle aule sono bandite lezioni frontali e test. Spesso i ragazzi imparano a scrivere raccontando le proprie storie in gruppo, “senza preoccuparsi per un attimo del loro futuro – commenta il docente – L’essenziale è conoscersi come persone e non più come detenuti o come matricole: solo così la scuola assolve al proprio compito”.

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