Usa-Iran, il braccio di ferro eterno tra il Grande Satana e lo Stato canaglia

Non è “una” questione importante. Per certi versi, il rapporto tra gli Stati Uniti e la Repubblica Islamica dell’Iran è LA questione per antonomasia, che non impatta solo sugli equilibri regionali, ma mondiali. Negoziati sì, ma come? indiretti La proposta di dialoghi indiretti in Oman, avanzata da Donald Trump con la solita retorica un po’ spiccia, in cui mescola minacce ad aperture proposte di dialogo, è quindi un possibile punto di svolta su quanto accade in quel Medio Oriente sempre in ebollizione. Se non si dovesse trovare un accordo, sostiene il presidente americano, l’Iran “si troverebbe nei guai”. E qui si affaccia – puntuale – il dubbio di come si devono valutare le azioni dell’ex tycoon: si tratta dell’ennesimo dossier aperto con la spavalderia di chi è inconsapevole delle conseguenze delle proprie azioni, oppure è un’audace mossa di chi sa fiutare il momento giusto? Una vecchia storia Partiamo da dove è cominciato tutto. In genere si ritiene che i rapporti tra Teheran e Washington – un tempo alleati granitici – si siano compromessi con l’ascesa di Khomeini e la crisi degli ostaggi. E in parte è vero. In realtà, la storia parte da un po’ più lontano. La sfiducia germoglia quando l’Iran si chiamava Persia e il suo popolo, nel lontano 1951, eleggeva Mohamed Mossadeq primo ministro. Aristocratico, laureato in Svizzera, riformista, negli anni ’40 si era battuto per l’indipendenza e la democrazia nel suo Paese. Paese che, primo in tutto in Medio Oriente, aveva introdotto il Majilis, il parlamento. Fin qui, verrebbe da dire, tutto bene. Solo che Mossadeq decise di nazionalizzare le risorse petrolifere e di espropriare quindi la Anglo-Iranian Petroleum Company, la progenitrice dell’attuale BP. Mossa che – come prevedibile – irritò Londra. Fin qui gli Stati Uniti erano solo spettatori. Fino a quando Winston Churchill, rieletto premier, chiese al presidente americano Eisenhower di intervenire. E lui lo fece. Ma, come sempre, Washington non si mosse gratis, al contrario entrò prepotentemente nella politica della Persia: nel 1953 l’operazione Ajax – con il sostegno di Cia e MI-6 – riportò lo Scià ai pieni poteri con un colpo di stato. L’Iran “Occidentale” L’esito di questa operazione è, nel migliore dei casi, controverso: c’è chi sostiene che l’Iran visse una modernizzazione come non si sarebbe più vista in tutta l’area. Sono moltissime le immagini delle ragazze di Teheran in minigonna e le acconciature alla moda degli anni '60 e '70. Ed è altrettanto vero che all’epoca il pil della Persia galoppava, parallelo si avviava una modernizzazione che avrebbe portato all’alfabetizzazione di massa. E però sull’altro versante non mancavano i lati oscuri: dalla repressione feroce della Savak, i servizi segreti torturatori che – istruiti dalla CIA – reprimevano ogni forma di opposizione all’enorme disparità sociale passando per la corruzione dilagante. Queste le premesse per l’arrivo dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, nel 1979, dopo un lungo esilio parigino. Queste le radici della rivoluzione islamista che avrebbe ridisegnato tutti gli equilibri dell’area scacciando gli americani dal proprio suolo e costituendo un baluardo antioccidentale nel Medio Oriente. La repubblica Islamica Da quel momento in poi l’Iran, anzi la Repubblica Islamica dell’Iran, avrebbe costituito un bizzarro esperimento politico: una teocrazia che si finge democratica e in cui si ibridano elementi occidentali e locali, come la forma repubblicana, ma con un ruolo cruciale per il clero. E il clero è un elemento fondamentale per comprendere la realtà iraniana. Perché, da un punto di vista religioso, la Persia aderì tardivamente all’Islam, e in una forma minoritaria, nata nel vicino Iraq, lo sciismo della corrente duodecimana, che prevede – contrariamente all’islam maggioritario, sunnita – l’esistenza di una gerarchia ecclesiastica. La peculiarità iraniana è tutta qui: in un Paese che vive in bilico tra le sue contraddizioni. Tra aspirazioni di una sua originale modernità e istituzioni retrograde. Pochi sanno, ad esempio, che in Iran vive tuttora la seconda comunità ebraica del Medio Oriente, cui viene garantita libertà di culto e di esercizio, oltre a un seggio nel parlamento. E se è vero che il consumo di alcol è proibito a livello pubblico, agli zoroastriani è concesso di utilizzarlo, essendo legato al loro rito . Questo non cancella che secondo il recente rapporto di Amnesty International la Repubblica Islamica sia uno dei Paesi in cui la pena capitale viene applicata più frequentemente, dove le esecuzioni avvengono in piazza tramite impiccagione, e che le vittime siano in gran parte oppositori politici. O criminali comuni, contro ogni standard internazionale. E che le donne, al di là di caute aperture, vivano in una condizione di grave compressione dei diritti. Possono votare e guidare , contrariamente all’Arabia Saudita e dell’Afghanistan, ma restano comunque cittadine di serie B. I segnali del malcontento Tutto questo excursus storico perde in parte peso, però, rispetto a un elemento critico: l’età media degli iraniani è di 32 anni, tra le più basse del mondo, e la stragrande maggioranza della popolazione è nata dopo tutti questi eventi. Pur con tutte le sue limitazioni, le informazioni circolano, Internet è captato più o meno clandestinamente dai giovani, che vedono come il loro modello sia sempre meno al passo coi tempi. Di qui l’intensificarsi delle manifestazioni di dissenso – soprattutto per la condizione femminile, ma anche delle altre minoranze, per un’economia dirigista fallimentare – che hanno portato migliaia di giovani a scontrarsi con il regime. Ultime, ma solo in ordine temporale, le proteste seguite alla morte di Masha Amini, la giovane uccisa perché portava il velo in modo “inappropriato”. Tutto questo – ma non solo – ha portato all’elezione di un candidato “moderato” Masud Pezeshkian dopo la tragica morte del suo predecessore, Ebrahim Raisi, ma con un’affluenza alle urne che non ha raggiunto il 35%. Segnali di debolezza? Moderato, poi, nell’ordinamento iraniano – in cui i candidati sono selezionati e approvati da una commissione, che valuta la fedeltà ai principi cardine dell’Islam e della Repubblica – ha un significato ben diverso rispetto a quanto lo immaginiamo noi occidentali. Significa semplicemente “meno conservatore”. Quanto sia in sintonia con la maggioranza degli iraniani lo dimostra il suo plebiscito. È però un segnale. Che va ad aggiungersi ad altri, ben più gravi, che somigliano a scricchiolii di un regime in difficoltà. Come la morte di Ismail Haniyeh, leader di Hamas, proprio a Teheran. Un omicidio attribuito ai servizi israeliani, che hanno anche eliminato un altro importante alleato dell’Iran, Hassan Nasrallah, leader degli Hezbollah libanesi. Atti che hanno ricevuto come risposta uno sciame di droni e missili intercettato al 99% dallo Stato Ebraico. La mancata replica – o se vogliamo l’esclusiva dimostrazione di forza – di Teheran ha dimostrato, secondo alcuni analisti, come la Repubblica Islamica sia in realtà una “tigre di carta”, ormai piegata nell’economia e nei consensi, che faticherebbe a sostenere un braccio di ferro con gli Stati Uniti e Israele. Il rebus del 7 ottobre In tutto questo resta la grande domanda irrisolta: l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas – addestrata e finanziata dall’Iran – è scattato su ordine degli ayatollah o è stata una scriteriata fuga in avanti dell’organizzazione terroristica palestinese? È stato un tentativo di destabilizzare lo Stato Ebraico, travolto in quei mesi dalle proteste contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu? Oppure una mossa per impedire l’estensione degli accordi di Abramo – la normalizzazione dele relazioni tra Israele e paesi arabi – anche all’Arabia saudita? Quale che sia la risposta – o anche un insieme di tutte queste – sono tutte briciole che portano – senza conferme, e mai ce ne saranno – all’Iran. In realtà, il risultato ottenuto è stato esattamente l’opposto: l’annientamento della leadership di Hamas e di Hezbollah, la devastazione della Striscia di Gaza a livelli inimmaginabili, il compattamento della destra radicale in Israele attorno al premier. Il dossier della discordia La questione del nucleare iraniano meriterebbe un trattato a sé stante, in un continuo tira e molla tra Teheran e l’AIEA, l’agenzia nucleare dell’ONU, dall’apertura di Obama alla chiusura di Trump, e poi la successiva riapertura di the Donald. Sul tavolo non c’è il diritto – legittimo - dell’Iran a dotarsi di impianti per l’energia nucleare, quanto il sospetto – un po’ di più, in effetti – che le mire siano di dotarsi di un ordigno atomico. Del resto, si obietta, se è vero che Teheran, avendo aderito al Trattato di non Proliferazione, non può avere accesso a questi armamenti, è anche vero che il suo nemico, Israele, secondo indiscrezioni ben suffragate – ma mai confermate, ne ha circa 100 stipati nel Negev. Ragionamenti che si rincorrono da almeno 30 anni, e che non hanno mai trovato una soluzione, viziati come sono dalle ideologie e dalle logiche degli schieramenti contrapposti. Che poi sono sempre Teheran e Washington. A questa contrapposizione si può ricondurre la guerra Iran-Iraq, la crisi dell’Afghanistan, il sostegno americano ai mujaheddin, i prodromi dell’ascesa di al Qaeda e di bin Laden, lo sconvolgimento di tutta l’area, con Iran e Usa a sostegno dei loro reciproci “proxy” in una logica da guerra fredda che ha portato all’attuale collasso del Medio Oriente. Sul tavolo dei negoziati non ci sono turbine e acceleratori, ma decenni di odio che va dalla crisi egli ostaggi all’attentato di Lockerbie, dagli omicidi mirati di esponenti del regime, ai sabotaggi degli impianti nucleari, al sostegno strumentale della causa palestinese e la crisi siriana. Tutti fili che portano ai due contendenti. Contendenti che sederanno al tavolo negoziale – separatamente, per carità – con tutto questo bagaglio di rancore e precedenti. Un bluff calcolato, ma non del tutto Tutta questa serie di considerazioni deve essere stata fatta da Trump, che evidentemente confida nella debolezza di Teheran che, in parte, è reale. Bisogna notare però come la Repubblica Islamica, in passato, abbia dimostrato più volte la sua capacità di affrontare sfide inimmaginabili: basti pensare all’invasione irachena negli anni ’80, un’operazione sostenuta e foraggiata dall’amministrazione Reagan, da cui l’Iran emerse vincitrice. E poi ci sono le difficoltà logistiche che non possono essere dimenticate. Un intervento militare così lontano da casa non è né semplice né ha mai portato a successi, ma una sequela di operazioni “oltremare” dall’esito parziale o fallimentare che dovrebbero indurre Trump a una maggiore cautela. Come se non bastasse, l’Iran ha non trascurabile una capacità militare con le forze armate in un ruolo nodale in tutta l’economia nazionale. La crisi ha colpito la popolazione, non i militari. C’è poi l’incognita del dissenso. Al di là delle pur notevoli manifestazioni di piazza, c’è uno zoccolo duro, difficile da stimare, che sostiene il regime. O che magari non lo condivide, ma che non apprezza la modernità in chiave occidentale. Dal 12 aprile questi nodi verranno al pettine, e non c’è alcuna certezza che potranno essere sciolti. O magari non così in fretta come spera the Donald.

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