Papà Turetta. Nessun consiglio per lui

Cronaca
Domenico Barrilà

Domenico Barrilà

Si è preferito discutere proprio delle parole usate dal padre, che fanno notizia, e sebbene non siano troppo dissimili da quelle che avrebbe pronunciato ciascuno di noi, sulla famiglia si è addensato il disprezzo, esplicito o tacito di chi, a torto o ragione, la ritiene responsabile delle azioni del figlio

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Sarebbe un’ottima partenza domandarsi cosa succederebbe se le parole che diciamo nel privato diventassero pubbliche. Cambierebbero sia il loro significato che il giudizio del prossimo su di noi. 

Le parole, come i pesci, possono vivere solo nel loro ambiente, l’acqua.

Questa domanda, se posta con onestà, ci avrebbe indotto a concentrare l’attenzione sulla gravissima e disumana azione, alla base della diffusione del colloquio avvenuto in carcere tra Filippo Turetta e i suoi genitori.

Invece si è preferito discutere proprio delle parole usate dal padre, che fanno notizia, e sebbene non siano troppo dissimili da quelle che avrebbe pronunciato ciascuno di noi, sulla famiglia si è addensato il disprezzo, esplicito o tacito di chi, a torto o ragione, la ritiene responsabile delle azioni del figlio.

Ai signori Turetta è stata riservata tutta la riprovazione disponibile, quando non il disprezzo, comprensibile sebbene non del tutto giustificabile, perché nella tragica vicenda consumatasi nel novembre scorso vi sono frammenti di tutti noi che avrebbero dovuto indurci a una maggiore prudenza.

Il colloquio

Ridotto all’osso, il colloquio tra i genitori e il giovane femminicida, rappresenta un tentativo ingenuo ma umano di avvicinarsi a una impossibile normalità.

Mi sono chiesto cosa avrei detto se Filippo fosse stato mio figlio, soprattutto se l’avessi incontrato in prossimità dell’arresto, con la paura incombente che potesse togliersi la vita, evento che avrebbe appagato il diffuso desiderio di vendetta, sempre più presente nella pancia della società. Ma la domanda va estesa a ciascuno di noi, posto davanti a un figlio in un momento così scioccante, quando due genitori cercano di salvare il poco che rimane di ciò che avevano messo al mondo con tante speranze, ma che si è rivelato una catastrofe, una persona inadatta, un grumo di fragilità irrisolte capace di abbattersi sulla vita innocente di una povera creatura, come un meteorite che non lascia scampo.

Ovviamente, non sono mancati i pareri degli specialisti, da quelli più famosi a quelli che cercano di farsi spazio, alcuni si sono lanciati in espressioni che per le persone comuni sono arabo. Gettonatissimo narcisismo, termine abusato che, lo confesso, dopo tanti anni di professione fatico a capire, sembra come la mozzarella sulla pizza, la si trova dappertutto. Si è persino azzardato un doppio narcisismo, padre-figlio, peccato che, come diceva il grande neurologo francese, Jean-Martin Charchot, “le teorie sono una bella cosa ma non impediscono alla realtà di esistere”. Ma anche voyerismo, riferito a chi si è servito di quel materiale riservato, si è difeso bene. Secondo il matematico Benoit Mandelbrot “quando diamo il nome a una cosa, quella cosa comincia a esistere”, può darsi sia vero, ma non sempre il nome spiega le cose, soprattutto se viene usato per mettere distanza tra chi parla e chi ascolta.

Ma la vera questione rimane nascosta, perché Filippo Turetta è la rappresentazione perfetta del complesso di inferiorità, un morbo che si è impossessato di intere generazioni, rendendole ipersensibili all’insuccesso,

vissuto come una smentita definitiva, come perdita senza rimedio della possibilità, agognata da tutti, di lasciare un’impronta di sé.

Scrivere espressioni deliranti, “La laurea insieme o la vita è finita”, come aveva fatto Filippo in un sms indirizzato a Giulia, non è una minaccia, bensì una sentenza, ma il messaggino si è perso nel fiume inarrestabile della comunicazione compulsiva che i ragazzi di oggi agiscono, dove tutto sembra finto, privo di densità.

Il sentimento di inadeguatezza

È la stessa leva, il sentimento di inadeguatezza, che arma la mano al maschile più involuto. Quattro anni fa aveva segnato il destino della giovane laureanda in medicina siciliana, uccisa dal fidanzato infermiere che non sopportava la prospettiva di uno scarto professionale “umiliante”.

Forse era meglio lasciare da parte le parole rubate al padre e discutere delle competenze genitoriali dei signori Turetta, ma il risultato forse non sarebbe cambiato. Pochi potrebbero, infatti, sedersi sui banchi della giuria, di sicuro non troverebbero posto coloro che utilizzano parole a effetto senza raccontare come sono arrivati a certe conclusioni, espressioni che fanno bella figura nei manuali ma nella realtà sembrano intruse, perfette sconosciute. Che si attardano sui titoli ma non spiegano la trama.

Si, avremmo detto tutti all’incirca le stesse cose, a Filippo, quella giornata in prigione, qualora fossimo stati sua madre o suo padre, concetti che sarebbero passati nel silenzio se a qualcuno non fosse venuto in mente di rubarli e metterli in circolazione, uno squallore che, purtroppo, non restituirà Giulia al mondo, in compenso sposterà la riflessione dalla parte sbagliata perché, potrebbe non piacerci, ma entrambe le famiglie, quella del carnefice e quella della vittima, pure con ruoli e destini diversi, rappresentano assai bene parti importanti di noi, per questo a nessuno è permesso dare lezioni. Il fulcro non si trova nelle espressioni di un padre che voleva incoraggiare il figlio, ma in tutto ciò che è accaduto prima nel rapporto tra i signori Turetta e il loro figlio, perché Filippo era un soggetto a rischio, il modo efferato con cui si è mosso sul corpo di Giulia ne rappresenta un indizio potente. I suoi genitori si sono persi qualcosa, appare evidente, ma ciò che passa attraverso i canali virtuali non è più nella disponibilità dei genitori, per questo sarebbe interessante domandarci cosa ci perdiamo tutti noi, tutti i giorni e soprattutto quali margini educativi, e di intervento, sono rimasti agli adulti.

Ma non possiamo accampare alibi, pena la cecità, il disastro educativo, noi genitori siamo costretti a lavorare col poco di tridimensionale rimastoci. Talvolta pochissimo, ma in realtà questa penuria di riferimenti dipende anche da un fatalismo pedagogico pieno di alibi che ci spinge ogni giorno di più lontani dalla vita dei nostri figli, anche quando sono vicini a noi, in carne e ossa.

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

 

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