Violenza sulle donne, la cultura del possesso che spopola tra i giovani su TikTok

Cronaca
Federica De Lillis

Federica De Lillis

©Getty

Lo chiamano "malessere": è lo stereotipo dell'uomo possessivo e geloso che viene idealizzato da moltissime ragazze. A seguito di questo trend, sui social si diffondono contenuti che veicolano una pericolosa identificazione del possesso con l’amore e restituiscono un'immagine romantica della violenza

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Il volto di Nanà è nascosto dai lunghi capelli biondi mentre abbraccia Mario. “Che fai se non ti sposo?” chiede mentre tiene la faccia di lui tra le mani. Il suono di uno schiaffo: “T’ schiatt”, ti uccido, dice lui. “O sposi me o non sposi più nessuno, hai capito?”. E se lei sposasse un altro? Lui le morde il viso: “Prima uccido lui e poi uccido te, hai capito?”. Nanà e Mario sono giovani, giovanissimi, forse è la loro prima esperienza con l’amore, o almeno quello che pensano sia l’amore.  Il video pubblicato sul profilo TikTok che condividono ha raggiunto più di 74mila mi piace, è stato salvato da quasi 11mila utenti. “O così o niente”, “Se non è così non lo voglio”, “Voglio una relazione così” commentano alcune ragazze. 

L’esaltazione del malessere e la romanticizzazione del possesso 

 

Da mesi su TikTok sono in trend contenuti che riguardano il cosiddetto "malessere": la definizione nasce da una canzone della cantante neomelodica Fabiana che esalta il cattivo ragazzo, magari alto, muscoloso e tatuato, spesso un soggetto possessivo, geloso, che ti fa soffrire ma lo ami lo stesso. L L'hashtag #malessere ha raggiunto 706,7 milioni di visualizzazioni. Ci sono contenuti che trattano in modo ironico lo stereotipo dell’uomo che magari sparisce all’improvviso per poi tornare con grandi promesse, creando una dinamica di dipendenza affettiva.  Ce ne sono altri che esaltano forme di abuso come lui che controlla il telefono di lei, che le tira la gonna fino al ginocchio mentre sono insieme in moto, che stabilisce quello che può o non può fare in elenchi dal titolo “cosa mi fa fare il mio ragazzo”. 

Siamo davanti alla romanticizzazione della cultura del possesso.

 

Flavia Carlini: "Si narra qualcosa di violento come qualcosa di positivo"

“Si tratta di narrare qualcosa di violento come qualcosa di positivo” commenta a Sky Tg24 Flavia Carlini, autrice e divulgatrice.  “Si associano comportamenti violenti a sintomi di amore come la gelosia estrema, il possesso, la limitazione della libertà altrui. È estremamente rischioso perché noi leggiamo il mondo sulla base delle informazioni che ci vengono fornite. Se davanti a questi video non c’è una contro-narrazione efficace, io, utente, finisco per credere che ci sia del bello, del romantico nel mio fidanzato che mi impedisce di vestirmi come voglio, che mi impedisce di uscire senza di lui”. 

A essere preoccupanti sono soprattutto le centinaia di commenti lasciati sotto questi contenuti: “Si sta diffondendo attivamente l'idea che non solo sia normale un comportamento in cui un uomo dice a una donna cosa può o cosa non può fare,  ma anche che questo tipo di comportamento sia auspicabile”. 

Secondo i dati provvisori di maggio-luglio 2023 rilasciati dall’Istat, il 48,7% degli intervistati ha ancora almeno uno stereotipo sulla violenza sessuale. Nella fascia di età tra i 18 e i 29 anni si trova la percentuale più alta di coloro che accettano ancora “il controllo dell'uomo sulla comunicazione (cellulare e social) della propria moglie/compagna", sono il 16,1%. 

Patriarcato, la necessità di una "contro-narrazione"

 

Alla base della persistenza degli stereotipi e della violenza di genere si trova la radicata cultura patriarcale in cui tutte e tutti siamo immersi. “Quel maledetto aggettivo possessivo” ha detto il filosofo Umberto Galimberti per parlare di quanto l’idea che il possesso dell’altro sia amore si presenti radicata nella nostra mente. “La cultura patriarcale - continua Carlini - è l’oggettificazione, il limite, qualcun altro che pretende di dettarmi quello che posso o non posso fare. Purtroppo la parola patriarcato è diventata un tabù come novant’anni fa lo era la parola femminismo o quarant'anni fa lo era ‘femminicidio’. Non venivano usati perché erano visti come una forma di complottismo”.  Secondo Carlini, adesso è arrivato il momento di dare avvio a una contro-narrazione, iniziare a usare la parola patriarcato e iniziare a riconoscere quelli che sono le sue manifestazioni che vanno da una interpretazione sbagliata della gelosia e del possesso, visti come amore romantico, fino al femminicidio. 

Il femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa a 22 anni dall’ex fidanzato Filippo Turetta, ha innescato uno dei dibattiti più importanti che si siano tenuti nel nostro Paese sul tema della violenza di genere. “Un ruolo enorme lo ha avuto la sorella, Elena Cecchettin, perché ha scelto di utilizzare il suo dolore e la sua storia per esplicitare una dinamica sociale, ma un grande ruolo in tutto questo l'ha avuto anche chi fosse il femminicida: un ragazzo di 22 anni, di buona famiglia, bianco, occidentale. Lui incarna tutti i valori che l'Occidente vuole rappresentare eppure ha commesso un femminicidio. Questo secondo me ha permesso a molte persone di aprire gli occhi sul fatto che esista una cultura patriarcale, che non sono raptus e non sono persone malate di mente”. 

 

Il ruolo della famiglia e della scuola 

Mentre il dibattito sulla cultura del possesso esplodeva, sui social andavano in trend contenuti di esaltazione dell’uomo geloso e dai tratti violenti.  Su TikTok l’algoritmo decreta il successo o l’insuccesso di un video pubblicato sulla base di quante persone guardano, apprezzano, condividono e salvano il post.  Se le piattaforme si alimentano con l’interazione degli utenti, significa che ogni singolo profilo ha in sé una responsabilità. “Non interagire con certi contenuti li fa passare di moda, li fa uscire dall’algoritmo, ma questo non basta” afferma Carlini.  È necessario avere accesso a un’informazione corretta e a una consapevolezza che dovrebbero avere inizio tra i banchi di scuola. “La scuola - dice Carlini - può e deve essere in grado di formare le persone che la frequentano. È lì che si plasma il nostro modo di vedere il mondo. Se a scuola nessuno ci spiega la differenza sostanziale tra sesso e stupro, che sta tutta nella parola consenso, e i tragici dati che ci sono dietro questa possessività estrema, allora continueremo a credere a quello che vediamo in trend sui social: cioè che amore e possesso siano sinonimi quando non potrebbero essere realtà più opposte di così”.

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