Violenza sulle donne, sui bambini, su chi capita e sul futuro

Cronaca
Domenico Barrilà

Domenico Barrilà

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Nessuna persona è disponibile a prendersi cura del suo prossimo o anche solo a rispettarlo, se la sua vita sta naufragando in un quartiere malfamato o a causa di un qualsiasi svantaggio avvertito come insuperabile

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“Guarda come sei conciata, sarebbe ora di smetterla di litigare con quella tua amica”.

La ragazza era piena di lividi, i vestiti strappati in più punti, ma la madre non le pose alcuna domanda, quando alle sette del mattino le aprì la porta.

Forse era stanca di quei rientri mattinieri della figlia o forse “voleva” che le cose stessero come sperava lei. Capita a tutti di resistere alla realtà, quando ci appare troppo scomoda, lontana dalle nostre attese. A modo suo, anche questa è violenza.

“La guardai avvilita e scivolai verso la mia camera, qui mi addormentai. Non mi chiese alcunché, continuammo come se nulla fosse”.

A quel tempo la ragazza aveva sedici anni, era uscita dalla discoteca verso l’una di notte, chiese un passaggio a quattro giovani che tornavano in città. Il viaggio finì in un capannone dismesso, dove fu violentata per ore.

Quando la conobbi, oramai donna fatta, molte altre cose erano accadute, compresa la caduta nell’eroina, allora era quella la sostanza per eccellenza, per procurare la quale, a lei e al compagno, si prostituiva sulla strada. Era una signora bella e di intelligenza raffinata, forse fu proprio la grande capacità di adattamento a salvarla in quell’interminabile notte, la stessa che le permise di portare i quattro stupratori davanti al giudice e di farli condannare.

I lasciti, però, furono incancellabili, il piano della sua vita ne uscì deformato. Quella notte la sua esistenza fu “toccata” per sempre, oltre le evidenze e i lividi. Quando leggiamo di uno stupro, di una violenza, sembra che tutto si fermi in quei punto, ma non è così, la montagna da scalare è il dopo.

Proprio in quei mesi ricevetti la telefonata di un avvocato. Desiderava che gli facessi da consulente durante un processo. L’imputato era un giovane stupratore seriale, agiva mascherato insieme a un gruppo di complici. Imperversarono per anni, la tecnica, collaudata e affinata con l’esperienza, prevedeva di appostarsi nottetempo fuori dalle discoteche, individuare donne sole che ne uscivano, seguirle in macchina, bloccarle e stuprarle.

L’avvocato volle consegnarmi il faldone contenente le denunce più pesanti, pagine piene di particolari raccapriccianti. Le sensazioni indicibili di quella lettura sarebbero state pareggiate solo dopo una visita ai campi di Auschwitz, anni dopo.

Dalla Germania riportai a casa un cumulo di domande irrisolte. Riprovai ciò che mi aveva scosso leggendo quelle denunce, nessuna risposta, solo un senso di impotenza irrimediabile, e l’amara consapevolezza della natura ambigua e pericolosa degli esseri umani di sesso maschile, che diventa letale quando si fa chiara la consapevolezza della nostra inettitudine, che neppure le maschere di quegli stupratori potevano nascondere. Una di quelle donne, con una lucidità forse ispirata dalla paura, riuscì a individuare il soggetto più debole del gruppo, pure senza vederlo in viso. Già durante il breve viaggio verso la campagna, dopo il sequestro, aveva capito su chi puntare per salvarsi, così quanto “toccò” a lui, riuscì a ottenere la promessa che non le avrebbero fatto del male.

La paura negli occhi di quelle donne, in balia di cinque aguzzini che nottetempo le accompagnavano verso un destino incerto, è stessa che provò Edith Stein davanti alla rudimentale camera a gas, ricavata da una piccolissima casa colonica riadattata. Chissà se anche loro, come la teologa, si fecero i loro bisogni addosso.

Quelle denunce giacciono nel mio archivio, mai più rilette, presto saranno distrutte al pari delle cartelle cliniche più vecchie. Sono un atto d’accusa tremendo verso noi genitori, verso noi maschi.

L’uomo incappucciato di cui la vittima aveva captato vaghi tentennamenti, era lo stesso di cui dovetti occuparmi in vista del processo, una personalità mediocre, con ampie chiazze di codardia, ma questa non una rarità, perché dietro la violenza, tutta la violenza, vi sono sempre uomini fragili, irrisolti, emarginati, animati da una feroce sete di vendetta verso il mondo intero.

Una violenza più facile da indirizzare verso prede indifese, agendo al riparo di un branco. Un caso esemplare si è verificato in queste ore alla periferia di Roma, dove un giovane indiano, sbandato e dedito agli stupefacenti, è stato letteralmente lapidato da un nutrito gruppo di bravi, per punire il tentato scippo ai danni di una persona anziana. Sarebbe bastato immobilizzarlo e chiamare subito i carabinieri, invece si è aperto uno scenario da notte dei cristalli, indegno di tutti noi. L’accanimento sul corpo del ragazzo è stato impressionante, difficile da reggere, almeno quanto il sacrifico della capretta da parte di un branco di ragazzini. Stessi calci, stesse afflizioni. Ma la violenza non è “specializzata”, si tratta di una caratteristica di base, generale, quasi sempre appresa o tollerata nelle famiglie d’origine, che può evolvere verso bersagli disparati, a seconda dei casi. Essa, nasce sotto il nostro naso e poi cerca compenso.

“Un giorno all’oratorio c’erano dei muratori. Uno di loro mi porto sul furgone e mi fece fare delle cose. Tornai a casa sconvolto, mi sedetti sotto il tavolo della cucina e rimasi in silenzio tutto il pomeriggio. Nessuno mi fece domande, neppure nei giorni successivi. Da grande odiavo le prostitute e mi piaceva andare con quelle che, per un supplemento di danaro, si facevano picchiare. In quei momenti pensavo a me da piccolo, su quel furgone, e ci provavo gusto. Dopo mi mettevo a piangere. Come un bambino, maledicendo mia madre, che non aveva saputo interpretare la mia tragedia allora, lasciando depositare delle terribili scorie dentro di me”.

La violenza spacca la storia personale e la predispone alla reiterazione, ma un violento non è mai una persona forte, senza nessuna eccezione, ragione per cui, se punirlo è indispensabile, diventa interesse della società curarlo seriamente, onde evitare di rimettere in circolo le sue tossine, diventate anche più aggressive dopo la privazione della libertà.

Una mia paziente era regolarmente accompagnata dal fidanzato, che mai potei conoscere, perché aspettava fuori, in auto. Uomo manesco, capo di una piccola cosca che egli dominava con pugno ferreo. Chiesi alla ragazza di farmelo conoscere, così l’accompagnai alla macchina. Lui scese, divenne molto deferente, era rosso per la timidezza e mi porse una mano sudatissima.

C’è un mondo infantile dietro la violenza, ma non serve ripeterlo per consolarci, è necessario puntare i nostri sensori sulle premesse di questo flagello, proprio per aiutare le vittime, numerose e spesso impotenti.

Sovente mi chiedono se la violenza è in aumento. Sarebbe arbitrario estendere ciò che si vede dal mio piccolo osservatorio, la sensazione, tuttavia, è che intorno a noi si stiano predisponendo condizioni favorenti, sia a livello familiare, sia pedagogico in generale, sia culturale, sia sociologico. Dire che la situazione potrebbe sfuggire di mano, forse è un’esagerazione, ma dobbiamo tenere presente che nessuna persona è disponibile a prendersi cura del suo prossimo o anche solo a rispettarlo, se la sua vita sta naufragando in un quartiere malfamato o a causa di un qualsiasi svantaggio avvertito come insuperabile. Dunque, opporre solo risposte repressive apre la strada a nuove e più drastiche forme di violenza che, come sempre, cominceranno a falciare i cittadini più fragili, donne e bambini.

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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