Slow News è nato nel 2014, è un progetto di giornalismo “lento”, che ha costruito attorno a sé una comunità di lettori che sostengono il lavoro della redazione. Approfondimenti, newsletter, podcast, serie giornalistiche, con un colloquio costante, da remoto e dal vivo con chi legge, fruisce, sostiene. Alberto Puliafito è tra i fondatori, racconta la sua esperienza, quella del team ma anche i progetti che all’estero seguono lo stesso principio
Come racconteresti Slow News a chi non lo conosce?
Slow News nasce come altre realtà giornalistiche del movimento “slow journalism” come reazione, esattamente come “slow food” lo è stato nell’ambito del cibo. La riflessione che unisce vari progetti è che stiamo producendo troppo, spesso senza controllo, senza porci problemi, senza le necessarie verifiche, senza pensare alle conseguenze di quello che produciamo. Questo ha dei rischi, sia per chi fruisce dei nostri contenuti sia per noi che li produciamo. Quando ho iniziato a pensare a questi temi dirigevo Blogo: producevamo 300, 400 pezzi al giorno, e questo incideva anche sulla mia salute.
La consapevolezza di voler andare in una direzione “slow” in cosa è sfociata?
Abbiamo pensato di provare a fare qualcosa di diverso. Siamo partiti con una newsletter che usciva due volte a settimana con 3 cose belle, tre link interessanti. L’idea era di non produrre nulla, ma di suggerire cose fatte da altri. Poi ci siamo resi conto che se volevamo crescere e portare avanti la nostra idea di giornalismo dovevamo produrre qualcosa di nostro. E così abbiamo fatto, con la stessa filosofia: fare poco e bene, cercando di pubblicare solo quando le cose sono pronte.
I lettori, il pubblico, come reagiscono a questa filosofia?
Faccio un esempio. Abbiamo iniziato il podcast Slowly. Lo registro, monto e produco io dalla a alla z, non ho uno staff. Quindi esce quando è pronto, e se non è pronto non esce. All’inizio sembra difficile spiegarlo alle persone che seguono il progetto. Ma se lo spieghi, si capisce che funziona. Anche per questo per noi è fondamentale la relazione con il pubblico.
Come costruite questa relazione con il pubblico?
Parliamo con le persone. Magari non tanto sui social, ma via mail. Ci scrivono molto, le conversazioni sono spesso lunghe. Slow News oggi è anche una comunità che si informa e prova a informare, dove le persone che lo desiderano possono essere parte attiva. Per esempio lavoriamo ad alcuni pezzi in maniera pubblica: se hai un’esperienza puoi metterla in un documento condiviso.
Di quali argomenti si occupa Slow News e in quali formati?
Oggi esce una newsletter al giorno, in modo diluito. Abbiamo il sito in cui raccogliamo le serie giornalistiche. Questo delle serie è un format sviluppato per raccontare una storia a puntate. Inizialmente non ci occupavamo di “ciò che accade adesso”, ma era una caratteristica che rischiava di essere respingente, ci faceva sembrare snob. Allora abbiamo iniziato a esercitarci. Ci chiediamo: “Riusciamo a produrre un commento sensato sulla notizia di cui oggi stanno parlando tutti? E ci riusciamo mantenendo i criteri dello slow journalism”? La risposta è sì, sui temi di cui siamo competenti.
C’è molta sperimentazione?
Facendo cose “slow” possiamo sperimentare tutti i formati. Abbiamo per esempio sperimentato un fumetto cartaceo di fiction. E’ stato scritto a partire da pezzi che abbiamo pubblicato noi, c’era tutta una produzione giornalistica durante il covid come base e insieme a un autore e una disegnatrice abbiamo creato un prodotto dichiaratamente di finzione.
Qual è il luogo di dialogo con i lettori?
Abbiamo una sezione chiamata “la posta”. La usiamo come le lettere che una volta arrivavano al giornale. Nella newsletter oltre ai link ai nostri pezzi, ai podcast, alle serie etc c'è una parte che ospita le domande a cui rispondiamo. Per esempio ci è stato chiesto perché non avevamo scritto dell’Ucraina o del green pass e abbiamo usato questo spazio per spiegarlo. Lo facciamo in maniera molto umana.
Come avete costruito la community e come la fate crescere?
Ci siamo rassegnati all’idea che aggregare community è un lavoro lungo a crescita lenta. Non è scalabile: un giornale mainstream forse non può neanche farlo. Noi abbiamo una community di circa 10mila persone, uno zoccolo duro. Si aggregano intorno a noi non solo per i contenuti, ma anche per l’approccio, per la filosofia, si sentono parte di qualcosa. Si riconoscono. Abbiamo anche capito che ti devi rassegnare al fatto che perderai delle persone per strada e non è un dramma. Siamo sempre ossessionati dalla crescita, a volte ci adoperiamo per capire i motivi di chi lascia, altre volte semplicemente lasciamo andare.
Come si coltiva il rapporto con questa community?
Abbiamo tentato varie strade: dai gruppi Facebook ai canali Slack, ma ovviamente sono importanti gli incontri dal vivo e in digitale. Facciamo un evento in presenza una volta all’anno, dal Covid in avanti abbiamo aggiunto lo streaming: ci siamo detti “basta essere esclusivi”, se le persone vogliono seguire l’evento online apriamolo.
Qual è il vostro modello di business?
Una delle scelte che ci può connotare come “radicali” è che non ospitiamo pubblicità. Sembriamo pazzi sovversivi, ma secondo noi il connubio pubblicità-giornalismo ha già dato, è il momento di provare nuove strade. La prima cosa che abbiamo provato è stato il paywall, in un momento in cui non lo faceva nessuno e ci dicevano che nessuno paga per il digital.
Ha funzionato?
In quel periodo ho avuto un incontro illuminante con Helen Boaden, ex direttrice di Bbc News. Le ho raccontato il progetto Slow News e lei ha detto: mi piace ma se ci metti il paywall resta un gioco per ricchi. E quindi? Abbiamo adottato un modello di membership, con l’aggiunta dei gadget “fisici”. Ci sono diversi livelli per aderire, sei tu che decidi quanto pagare, ma tutti i contenuti sono fruibili gratuitamente: è la teoria del “sostienici”. E poi abbiamo aggiunto come leva per la monetizzazione i bandi.
Come funzionano questi progetti?
Abbiamo vinto per esempio un bando europeo. E’ cofinanziato, quindi noi dobbiamo mettere comunque una parte. La cosa fantastica è che Slow News oggi è capofila di un progetto europeo con partner come Internazionale, La revue dessiné, Zainet e Percorsi di secondo welfare che fa da comitato tecnico scientifico. Stiamo usando il bando per diffondere questa cultura, per fare vedere che c’è un altro modo di fare le cose. Cerchiamo anche un meccanismo virtuoso per lavorare con i freelance. Non siamo grossi abbastanza per poter assumere, oggi siamo 4 soci e attorno a noi girano più o meno una ventina di collaboratori. Io non posso assumere però posso trattare bene i freelance, evitare di metterli sotto pressione. Attorno a noi quindi c’è anche una community di giornalisti.
Se la produzione di contenuti può essere “slow” lo è anche la fruzione?
Mi piacerebbe dire di sì, ma non ne sono sicuro. Il tempo di permanenza sui pezzi lunghi è sempre molto alto, parliamo di svariati minuti. Quindi la vecchia idea che sul digitale la gente non legge è una stupidaggine. Altro dato. Quando facciamo le live - e sono interviste di solito sotto i 45 minuti - i partecipanti magari sono pochi, perché gli argomenti sono di nicchia, però seguono tutto l’incontro. Se poi guardiamo l’infosfera usando il feed social come propria finestra, la sensazione è che la fruizione sia velocissima. Restiamo però convinti che ci sia un bisogno di lentezza, di sottrazione.
Quali esperienze all’estero possiamo andare a curiosare?
Parto da un libro: "Manifesto per un consumo critico dell’informazione", di Peter Laufer. E poi abbiamo raccolto molti esempi nel nostro documentario “Slow News: il film”. Zetland è uno dei più interessanti. Sono danesi. A loro invidio molto gli spettacoli a teatro: ricordo un monologo con una giornalista che parlava di tematiche e notizie sulla genitorialità, con l’interazione tra lei e il pubblico. Uno dei miei preferiti poi è Delayed Gratification, una rivista cartacea trimestrale. “Il piacere ritardato” è il titolo del loro format: si occupano di notizie finite nei tre mesi precedenti. Per esempio il numero di aprile contiene solo fatti di ottobre, novembre e dicembre. C'è La revue dessiné, che ho citato prima tra i partner del bando europeo a cui partecipiamo. C’è stata la parentesi di The Correspondant internazionale che è andata come andata ma quello olandese continua a macinare. E anche Tortoise. Ho visto progetti a orologeria: in Francia c’era America, un prodotto di carta che avrebbe raccontato l’America durante l’era Trump. Era già pensato per finire.
E realtà italiane “slow”?
Una realtà interessante è nata in Sardegna, Indip. Penso a Irpi che fa giornalismo investigativo, ma anche Internazionale. In realtà tutti quelli che condividono un certo approccio al giornalismo mettono in pratica la parte slow. Tante realtà locali fanno giornalismo slow. Mi viene in mente L’ora del Pellice, usano molto l'associazionismo.
Se ne sta parlando molto, cosa può portare l’intelligenza artificiale in un giornalismo di approfondimento?
Ho lavorato nel mondo Seo e so per cosa sarà usata l’intelligenza artificiale: per produrre più contenuti possibili per poter fare più click possibili. Vuol dire secondo me non aver capito nulla degli ultimi 30 anni di tecnologia, del digitale, delle persone. Cosa potrebbe fare invece? Potrebbe liberarci il tempo per fare le cose “noiose”, e tornare a fare quello che sappiamo fare come esseri umani. Io sto usando l’intelligenza artificiale per scrivere pezzi ma come assistente: non mi posso fidare di queste macchine obbligate a darti una risposta. Ricordiamoci però che anche Google lo era: se tu riempivi di contenuti orrendi il web per posizionarti su Google, lui ti dava risposte poco soddisfacenti. Con l’AI si potrebbe liberare il tempo: io la uso per fare riassunti, per scrivere abstract, ma la regola numero 1 è questa: nulla di quello che viene realizzato dall’intelligenza artificiale viene pubblicato senza che nessuno lo abbia verificato. E’ il ritorno degli editor.