8 marzo, la scrittrice Djarah Kan: "Perché la lotta al patriarcato è anche anti razzista"

Cronaca
Giulia Mengolini

Giulia Mengolini

"Una non può escludere l’altra. 'Intersezionalità' significa fare i conti con la realtà e aprire gli occhi su come le discriminazioni fanno gioco di squadra tra loro". Dal femminismo intersezionale al senso politico dell'8 marzo, dialogo con la scrittrice italo-ghanese: "Toccante che le strade siano tornate a essere piene. La sfida sta nell'includere gli uomini"

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La lotta femminista può non essere intersezionale? La discriminazione di genere e quella razziale possono essere due linee parallele che non si incontrano mai? Nel 1989 fu l’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw, che ha coniato il termine “intersezionalità”, a teorizzare che no, queste due linee rette devono incrociarsi per favorire una lotta comune, non solo di chi custodisce un privilegio. Fu alla fine degli Anni ’70 che gruppi di femministe nere e lesbiche presero coscienza di subire una doppia oppressione, sentendosi discriminate anche dalle stesse compagne bianche ed eterosessuali. Solo negli ultimi anni, in Italia, il dibattito sul femminismo intersezionale si è acceso, portando alla luce i diversi strati di oppressione possibili, dal genere alla razza, ma anche alla classe e alla disabilità. “Intersezionalità significa fare i conti con la realtà e aprire gli occhi su come le discriminazioni fanno gioco di squadra tra loro. Non esistono solo donne bianche, quindi la lotta contro il patriarcato non può escludere il dibattito sull’antirazzismo”, dice a Sky TG24 Djarah Kan, scrittrice italo-ghanese nata in Italia e cresciuta a Castel Volturno, piccolo paese nel Casertano con una lunga storia di immigrazione, lavoro, camorra e tensioni razziali.

Storie che svaniscono nel nulla

Vivere in una famiglia a basso reddito come “italo-immigrata”, che ha ottenuto la cittadinanza soltanto in età adulta, ha avuto un forte impatto sul modo in cui  descrive e vede il mondo. La sua scrittura è popolata di storie di donne che svaniscono nel nulla, che non riescono a dire tutto di sé e che fanno fatica a trovare pace in un mondo dove non è facile dire di appartenere davvero a qualcuno o a qualcosa. Kan ha collaborato, tra gli altri, con La Repubblica e L’Espresso, ed è autrice di Ladri di denti, raccolta di racconti e saggi che hanno al centro il tema dell'alienazione e del razzismo.

Djarah Kan

Qual è stato il motore che ti ha spinta alla scrittura?
Mi sono presa le parole e le storie quando ho capito che saper raccontare significava possedere un vero e proprio Potere. Appartenevo a una comunità di persone che ne era priva: persone che si spostavano laddove c’era lavoro e che non riuscivano a mettere radici da nessuna parte, perché c’era sempre il rischio che qualcuno, facendo valere la sua autorità di padrone in casa propria, sarebbe stato pronto a cacciarle o a disfarsi della loro presenza. Fin da bambina sapevo che per sopravvivere avrei dovuto attaccarmi a qualcosa di più grande di me. È stata la crudeltà di tutte le parole sentite in vita mia a spingermi verso il mistero della narrazione, è stata la cattiveria custodita in ogni parola a farmi comprendere quanto fosse immenso il potere delle parole e della scrittura.


Qual era il contesto in cui sei cresciuta a Castel Volturno? Ricordi la prima volta in cui hai capito cosa fosse il razzismo? E il maschilismo?

Sono nata e cresciuta in una realtà “difficile” da raccontare. Un contesto in cui la parola “degrado” stava sempre in cima, quando si trattava di spiegare che cosa fossa la vita delle persone africane che sceglievano di vivere in questo Paese. Una realtà in cui mancava tutto. Sia per i bianchi che per i neri. Non mi sono mai piaciute le parole che gli adulti intorno a me utilizzava per descrivere il modo in cui ero fatta. Avevano il sapore della menzogna, e il suono delle catene, dell’abuso e della chiave che si infila una serratura e ti lascia fuori, separata dagli altri, ma soprattutto lontanissima dalla possibilità di essere felice e di sentirti amata. Il razzismo e il maschilismo per me hanno rappresentato questo: ovvero quei limiti che ti impediscono di accedere alla pienezza della vita perché sei donna, e nera.

 

Una storia potente che hai voluto raccontare?
Quella di una ragazzina nera, povera e senza cittadinanza italiana, che nonostante tutto diventa scrittrice e padrona assoluta di tutte le parole che la riguardano. Perché se quelle parole avevano il potere di cambiarmi l’umore o di farmi piangere come una fontana, allora quel potere lo volevo anch’io. E sono orgogliosa di essere una scrittrice.
 

C'è un ricordo rispetto a un episodio di discriminazione che ti ferisce ancora?
Avrei una top 10 di traumi da raccontare. Posso solo dire che è stato  piuttosto difficile essere sempre felice e tenere su il morale in questi ultimi trent’anni di vita in Italia.
 

Fino a oggi, senti di aver vissuto più discriminazioni per via del genere o per il colore della pelle?
Il mio essere donna ha molto a che fare con il mio essere nera. Quando si parla di donne non bianche, non si può concepire la loro identità di genere senza tenere conto dello sguardo bianco e coloniale che da secoli viene proiettato sulla loro storia e sulla loro identità di genere.

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Cosa significa essere femminista oggi, nel nostro contesto storico e politico?
Significa respingere l’idea che possa esistere un empowerment femminile per pochi, simile a una cena di gala a cui non tutti possono partecipare. Il Femminismo non crea fosse comuni nel Mediterraneo o galere invisibili in cui rinchiudere quelli che non sono considerati “normali” Il femminismo è la rifondazione dell’umanità che parte dall’eredità di chi per secoli ha resistito contro la cancellazione del proprio corpo, dei propri diritti e dei suoi stessi desideri. E la cosa bella è che è per tutti.

 

Perché il dibattito femminista non può non considerare il dibattito sull’antirazzismo?
Perché esistono donne non bianche. E la linea del colore che molti dicono di non vedere, ha avuto e ha ancora oggi un impatto inimmaginabile sulla nostra esperienza di donne. La “collaborazione” tra patriarcato e razzismo è secolare, come dimostrano gli archivi della storia europea. Combattiamo contro il patriarcato, ma anche contro il razzismo. Una non può escludere l’altra.

La scrittrice Djarah Kan
Credits: Riccardo Piccirillo.

Quindi come possiamo definire in parole semplici il femminismo intersezionale?

Una donna povera non è soltanto vittima del patriarcato, ma anche delle sue condizioni economiche. Una migrante che arriva in Italia, non ha lottato solamente contro il Mediterraneo, ma anche contro gli abusi dei trafficanti e infine contro una burocrazia progettata per rispedirla al mittente, qualora ci fossero le condizioni. L’intersezionalità ti dice questo: non guardare solo nella direzione dove guardano tutti, ovvero il genere. Ma osserva soprattutto i punti ciechi. “Intersezionalità” significa fare i conti con la realtà e aprire gli occhi su come le discriminazioni fanno gioco di squadra tra loro.

 

Qual è lo stereotipo più radicato rispetto alle donne nere?
L’ipersessualizzzazione di noi donne nere è sicuramente un tema che colpisce i corpi neri. Ma sulla base della mia esperienza è curioso notare come questo fenomeno sia parte integrante del panorama del patriarcato italiano, che compie una strana opera di razzializzazione con le donne dell’Est europeo: anche loro ipersessualizzate e deumanizzate poiché immigrate non italiane.

 

Oggi è l'8 marzo. Da una parte vengono lanciate iniziative su musei gratis per le donne, inaugurate panchine rosse. Ma si scende anche in strada, ci si arrabbia, si manifesta. Cosa pensi di questa data?
Una data importante, che anni fa si festeggiava con uscite di gruppo al ristorante con sconti ad hoc per sole donne, mentre oggi, grazie anche al lavoro estenuante di tante e tanti attivisti, ritorna a pretendere risposte politiche, fatti e azioni reali. Altro che “panda” e mimose. Le strade tornano ad essere piene. E questo è toccante. 

 

Perché il femminismo ha bisogno ancora di essere ancorato a simboli a ricorrenze?
Perché sospendere la quotidianità frenetica di lavoro e famiglia per trovare la forza di raccogliersi insieme a sconosciute e sconosciuti in uno spazio pubblico, non solo per protestare, ma anche per ricordare, è un diritto umano e un atto politico di estrema importanza.

 

Se dovessi lanciare una proposta di legge per favorire la parità di genere, quale sarebbe?
Reddito di base universale per tutte. Una donna libera dal giogo della povertà e del lavoro salariato sottopagato è una donna che può salvarsi la vita da sola. E che può salvare la vita a qualcun altro. E partecipare alla vita pubblica. E vivere dignitosamente, senza che la precarietà tiri i fili della sua vita, spingendola a fare scelte di sopravvivenza che nulla hanno a che fare con il vivere. Più soldi per tutte: libertà e autodeterminazione.

 

Giorgia Meloni prima premier donna nel nostro Paese, Elly Schlein prima segretaria del Partito democratico. Cosa pensi del fatto che ci siano per la prima volta due donne alla guida del governo e del principale partito di opposizione?
Non credo che la vittoria di Meloni sia la spontanea evoluzione di un Paese che sta diventando meno maschilista. Anzi, possiamo dire che sia il contrario. Con Meloni non ha vinto la leadership femminile che guarda al cambiamento, ma un Paese che non vota più e che quando non è troppo inorridito a farlo, corre a nascondersi sotto le sottane di una destra che sa ancora come rassicurare e incattivire gli italiani. Credo invece che la scelta del Pd sia stata una risposta conseguenziale alla sua leadership. Schlein è lì perché c'è Meloni, e non il contrario. Sono convinta  che se Meloni non avesse vinto le elezioni, sarebbe Bonaccini il segretario di Partito.


La lotta femminista è di tutti e tutte: trovi che gli uomini fatichino ancora a sentirla come una lotta comune o nella tua percezione le cose stanno migliorando?

Mai come in questi ultimi anni gli uomini percepiscono il femminismo come una totale minaccia alla loro esistenza. Molti si sentono privati dell'antico ruolo di Pater Familias e di capi della comunità, che per millenni gli è stato offerto e allo stesso tempo imposto dalla società patriarcale. Fuori dalle maglie strette del patriarcato spesso non sanno chi essere o che cosa fare. La sfida sta nel fare comprendere loro quanto questo sistema non sia tossico soltanto per le donne, ma anche per gli uomini.

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