Dopo la sentenza della Corte suprema Usa facciamo il punto sul diritto all’interruzione di gravidanza nel nostro Paese partendo dai dati disponibili
Meno aborti in assoluto e in relazione alla popolazione. Maggiore percentuale di interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) tramite metodi farmacologici e una leggera diminuzione dell’obiezione di coscienza tra i ginecologi. Ma anche grandi disparità tra le diverse aree dello Stivale, ricorso alla chirurgia ancora troppo frequente e alcune province da cui, per abortire, sembra necessario emigrare.
Gli ultimi dati sull’aborto in Italia permettono di scattare una fotografia sull’applicazione del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza in Italia e sul suo andamento nel tempo. Un’immagine tanto più necessaria oggi dopo il pronunciamento della Corte suprema americana, che ha sancito che negli Stati Uniti interrompere la gravidanza non è più un diritto costituzionale. Una decisione che farà sentire le sue conseguenze anche sul dibattito pubblico italiano e europeo (GUARDA LO SPECIALE DI SKYTG24 "ABORTO, IL DIRITTO CONTESO").
Diminuzione nel tempo
Partiamo dalle certezze. Gli aborti in Italia continuano a dimnuire. Il trend è ormai trentennale: il picco è stato registrato negli anni 1982 e 1983 con oltre 230mila Ivg effettuate e da allora il totale è in costante discesa. Nel 2020, ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, per la prima volta gli aborti sono scesi sotto quota 70mila.
approfondimento
“Aborto, il diritto conteso”, lo speciale di Sky TG24
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Nello stesso periodo - si legge nell’ultima Relazione sullo stato di attuazione delle legge 194 - sono diminuiti anche gli aborti clandestini. Si è passati da circa 100mila stimati nel 1982 a un numero compreso tra 10 e 13mila nel 2016 secondo l’Istat.
Nel frattempo anche il tasso di abortività, che stima il numero di Ivg per donne in età fertile (15-49 anni), è sceso fino a 5,4 per mille (era 5,8 nel 2019). La diminuzione dei numeri assoluti, dunque, non dipende solo dal calo della popolazione generale. Nel 1982, per avere un paragone, il tasso era oltre tre volte superiore al 2020: 17,2 per mille.
Guardando alle differenze territoriali, la Liguria è la regione in cui, in rapporto alla popolazione, vengono effettuati più aborti (7,4 per mille), quasi il doppio rispetto alla Basilicata (3,8), l’area del Paese dove se ne effettuano meno.
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Che tipo di aborto?
Ma il numero di aborti (assoluto e in relazione alla popolazione) è solo uno degli indicatori che contribuiscono ad offrire un quadro più preciso della situazione. Anche il tipo di Igv praticata è rilevante per valutare lo stato del diritto delle donne ad abortire in Italia. E’ indicativa, in questo senso, la possibilità di ricorrere all’aborto farmacologico, molto meno invasivo e con minori rischi.
Sotto questo aspetto, i numeri raccontano che nel nostro Paese il ricorso a questo tipo di pratica è in costante aumento negli ultimi anni. E questa è una buona notizia. Si è passati da poco più di 7mila Ivg “farmacologiche” nel 2011 alle quasi 21mila del 2020.
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Tuttavia, nonostante la crescita degli ultimi anni, questa opzione è ancora poco praticata in Italia rispetto ad altri Paesi. E questa, invece, non è una buona notizia. Nel Regno Unito (85 per cento, ma i dati si riferiscono solo a Inghilterra e Galles) e in Francia (72 per cento), per esempio, le percentuali di aborti farmacologici rispetto al totale delle interruzioni di gravidanza sono molto più alte, in entrambi i casi più che doppie rispetto all’Italia, che si ferma al 35 per cento.
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La ancora parziale diffusione dell’aborto farmacologico si lega ad un eccessivo ricorso all’anestesia generale al posto di quella locale. Solo nel 3,6 per cento delle Ivg non “farmacologiche” si ricorre a questo tipo di anestesia, raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità perché pone meno rischi per la salute, contro il 54,5 per cento di anestesie generali.
Inoltre, si registrano grandi disparità tra le regioni. In Liguria, per esempio, quasi il 60 per cento delle Igv avvengono tramite somministrazione di farmaci, il dato più alto del Paese. Differente lo stato delle cose in Molise, dove gli aborti farmacologici rappresentanto appena il 2 per cento del totale. O nella provincia di Bolzano, dove solo una Ivg su 10 viene effettuata con l’aiuto di farmaci invece che con intervento chirurgico.
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La questione mobilità
Un altro indicatore importante per comprendere in quale misura il diritto all’aborto è garantito in Italia riguarda gli spostamenti. Idealmente, ogni donna dovrebbe poter abortire nella provincia e nella regione di residenza. Questo non sempre accade e non nella stessa misura in tutti i territori.
Per esempio, quasi una Ivg su 3 effettuata da residenti del Molise viene praticata fuori dai confini regionali. Una su quattro per quanto riguarda le donne che risiedono in Basilicata. Si tratta di percentuali superiori alla media nazionale (10,7 per cento).
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In proposito il ministero della Salute parla di “bassa mobilità fra le Regioni” e di dati “in linea con i flussi migratori anche relativi ad altri interventi del SSN”. In sostanza, si legge nella Relazione, dove si emigra per abortire si emigra anche per altre prestazioni. Inoltre, si afferma sempre nel documento, alcune di queste “migrazioni" potrebbero non essere effettivamente tali, dal momento che riguarderebbero donne che vivono già nella regione in cui si effettua l’intervento senza avere cambiato residenza.
Tuttavia, se si restringe ulteriormente lo sguardo si scopre, sulla base dei dati Istat, che nel 2020 in tre province - Fermo, Frosinone e Isernia - tutte le donne che hanno dovuto effettuare una Ivg sono dovute emigrare. Complessivamente, sono dieci le province in cui più della metà delle Ivg effettuate da residenti sono state realizzate al di fuori dei confini provinciali.
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La questione dell’emigrazione richiama quella della disponibilità di strutture sul territorio. Anche su questo aspetto, la Relazione annuale offre delle indicazioni e permette di individuare quelle aree dove la disponibilità del servizio, almeno dal punto di vista strettamente numerico, risulta bassa o comunque inferiore alle media, come in parecchie zone del Sud d’Italia. In particolare in Molise, nella Provincia di Bolzano e in Campania solo una struttura su tre offre il servizio di Ivg.
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Il nodo delle obiezioni
Resta sostanzialmente stabile la quota di ginecologi che, per ragioni di obiezione di coscienza, si rifiutano di praticare l’aborto. La cifra, per il 2020, scende al 64,6 per cento dal 67 per cento del 2019. In sostanza in Italia, circa 2 ginecologi su 3 non effettuano interruzioni di gravidanza.
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Anche in questo caso, come per altre statistiche, la differenza tra i diversi territori può essere grande. Ci sono aree come la Provincia di Bolzano o il Molise dove 5 ginecologi su 6 non sono disponibili ad intervenire per effettuare un aborto. E altre, come la Provincia di Trento, dove la percentuale scende al 35 per cento. Complessivamente, il problema è più diffuso nel Sud dell’Italia dove le percentuali di obiettori sono mediamente più alte rispetto al resto del Paese.
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La qualità dei dati
La situazione delineata in questo articolo, come ricordato, riguarda il 2020. Si tratta infatti dei dati più recenti messi a disposizione dal Ministero della Salute nell’annuale Relazione sullo stato di attuazione della legge 194. Le statistiche, in sostanza, fotografano la situazione come era due anni e mezzo addietro e, in certi casi, non arrivano al livello di dettaglio che sarebbe auspicabile.
Mancano, per esempio, statistiche a livello di singola struttura. Alcune di queste sono state riportati nel recente libro “Legge 194 Mai dati” di Chiara Lalli e Sonia Montegiove (Fandango Libri), frutto di una serie di richiesta rivolte alle Asl italiane sulla base della legge che regola l’accesso alle infomazioni pubbliche (Foia). Non tutte hanno risposto e il quadro completo resta ancora lontano dall’essere ricostruito. Eppure in altri Paesi, come il Regno Unito, statistiche con questo livello di dettaglio sono rese pubbliche con regolarità.
Ma anche i numeri messi a disposizione dal governo italiano presentano problemi di accessibilità. La fonte ufficiale e più attendibile è considerata la Relazione sullo stato di attuazione della legge 194 che ogni anno il Ministero della Salute presenta al Parlamento. Tuttavia, le tabelle della relazione sono disponibili in formato Pdf, poco usabile. Per avere dati più facili da elaborare - e, per certi indicatori, per avere semplicemnte i dati - bisogna rivolgersi al database dell’Istat.
Tuttavia i numeri dell’istituto nazionale di statistica non corrispondono completamente a quelli della Relazione. Come viene spiegato nella stessa Relazione, i dati Istat “sono leggermente inferiori al totale pervenuto all’ISS e non includono per definizione le donne non residenti in Italia”.