Ma perché non vai a lavorare al Sud? Oggi, forse, si può

Cronaca

Roberta Giuili

Southworking è un’associazione nata nel mezzo dell’emergenza virus per proporre come alternativa concreta quella di lavorare da remoto vivendo al Sud. Una proposta che, secondo Svimez, potrebbe interessare oltre 60mila giovani lavoratori.

“Durante il primo lockdown, quello di marzo, io ero in Lussemburgo”, racconta Elena Militello, 28 anni, “passavo le mie giornate da sola in una stanzetta”. Elena è nata a Palermo e a 17 anni è andata via dalla sua città per girare un po’ il mondo alla ricerca di quelle prospettive lavorative che, si sa, l’Italia e soprattutto il Sud Italia, si dice non possano offrire ai giovani. Era arrivata a Lussemburgo come assegnista di ricerca in procedura penale comparata e, quando è scoppiata l’emergenza virus, si è trovata come molti a fare aperitivi via zoom con amici e parenti lontani. “Moltissimi dei miei coetanei sono expat o fuori sede e tutti durante la pandemia ci siamo resi conto ancora di più di quanto ci mancava “casa””. Ma, quando casa è la Sicilia, è difficile pensare a un’alternativa lavorativa paragonabile a quella che può offrire il Nord o un Paese estero. “Ho sempre pensato che prima o poi sarei tornata ma nella realtà immaginavo che questo non sarebbe potuto accadere prima della pensione”, racconta Elena ridendo. 

Elena al lavoro

Tornare a ripopolare il Sud

E invece ora, con lo smart-working reso necessario dalle misure anti-Covid, sono mesi che lavora dalla Sicilia. È così che nasce l’idea di Southworking, lavorare al Sud. Quella che oggi è diventata un’associazione con l’obiettivo di permettere alle persone di vivere dove vorrebbero, che siano i loro luoghi d’origine o meno, e anche di riportare capitale umano in territori dove la tendenza è quella allo spopolamento. "Abbiamo aperto un dialogo con gli enti locali e il ministero per il Sud, ma soprattutto con le aziende", spiega Elena. Ora stanno cercando di mappare tutte le imprese propense a questo modello di lavoro. "Molti ci scrivono chiedendoci opportunità per tornare al Sud, ma purtroppo noi non siamo una piattaforma di questo tipo", spiega Salvatore Ducato, che cura soprattutto la parte social dell'associazione. L'idea è di raccogliere dati, storie, iniziative per poter formulare delle proposte di policy che le aziende potrebbero attuare. Si tratta quindi, di preparare il terreno e renderlo fertile. Da una parte, tramite il dialogo con i datori di lavoro. Dall'altra, lavorando anche con gli enti istituzionali in tema di spazi e infrastrutture necessarie. "Sono due i requisiti tecnici fondamentali su cui chiediamo di lavorare: una buona connessione Internet e un collegamento fattibile con un aeroporto", spiega Elena. 

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I ragazzi di Southworking in riunione su Zoom

L'importanza dei presidi di comunità

“Dal Sud, e dall’Italia in generale, si va via a cercare occasioni migliori di vita”, dice Elena, “soprattutto nel caso dei giovani e delle donne”. Moltissimi si sono sentiti dire almeno una volta: “Ma perché non vai all’estero?”. Oggi, tutti i ragazzi che avevano fatto quella scelta, come Elena, hanno voglia di tornare. O, addirittura, di proporre un’alternativa ancora diversa. “A me serve sia Milano sia la Sicilia, non voglio rinunciare a nessuna delle due”, dice Salvatore. Nella vita fa il Marketing & Digital Strategist, uno di quei lavori di cui, spiega lui stesso, “molti ragazzi magari non conoscono l’esistenza”. Per questo è importante pensare a quelli che Elena e Salvatore chiamano “presidi di comunità”, che l'associazione ha anche iniziato a mappare. Cioè luoghi, presenti in ogni paesino, cittadina, città, dove le persone possano incontrarsi, i giovani possano parlare del loro futuro e scoprire che esistono lavori nuovi e diversi dalle facoltà più quotate.  Dove, insomma, si possa creare quella comunità che rende così attrattiva la vita in Italia. 

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Durante la pandemia oltre 45mila lavoratori son tornati nel Meridione

Secondo i dati che hanno raccolto, oltre l’85% delle persone andrebbe o tornerebbe a vivere al Sud se gli fosse concesso e se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto. Si tratta per lo più di giovani tra i 25 e i 40 anni, laureati soprattutto in Ingegneria, Economia e Giurisprudenza e, nel 63% dei casi, assunti a tempo indeterminato. Insomma, persone soddisfatte dal punto di vista professionale. Ma a cui l’idea di dover tornare a vivere lontano da casa ora non va più bene. E così, oggi che i famosi borghi italiani si sono svuotati dei turisti, si può pensare a ripopolarli di giovani lavoratori. Svimez, l’associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, ha pubblicato l’indagine condotta da Datamining che dà le dimensioni del southworking: sono 45mila i lavoratori che sono arrivati, o tornati al Sud in questi mesi (la stima salirebbe a 100mila se si contassero anche quelli delle piccole e medie aziende). La proposta di Svimez è quella di identificare un target di potenziali beneficiari di misure per il southworking. A partire dai 60mila giovani laureati meridionali che lavorano al Centro-Nord. Potrebbero essere loro i primi a cui dire: ma perché non vai a lavorare al Sud?  

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