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La comunicazione ai tempi del Covid-19, tra distorsioni volontarie e involontarie

Cronaca

Il policy brief della School of Government della Luiss di Francesco Giorgino, docente di practice di Comunicazione e Direttore Master Luiss in Comunicazione e Marketing politico e istituzionale

L'analisi della School of Government della Luiss spiega le modalità con le quali è stata strutturata e gestita la comunicazione in concomitanza con la seconda ondata dell'epidemia di coronavirus

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In concomitanza della seconda ondata di contagi da Covid-19, in questo Policy Brief si intende riflettere sia in ordine alle modalità con le quali è stata strutturata e gestita la comunicazione, sia in ordine alle distorsioni volontarie e involontarie registrate nel discorso pubblico. Tutto ciò, considerando la molteplicità degli attori operanti e le peculiarità dei temi affrontati in un contesto emergenziale e fortemente emozionale a livello individuale e collettivo come quello pandemico. Nel far ciò è opportuno considerare contemporaneamente sia la comunicazione istituzionale (compreso il suo inevitabile e graduale scivolamento sul terreno della comunicazione politica), sia la comunicazione di massa (LO SPECIALE CORONAVIRUS).

I tre aspetti che emergono

Sono almeno tre gli aspetti che emergono, in estrema sintesi, da questa analisi:

a) Si evidenzia innanzitutto la presenza di una pluralità di emittenti del processo comunicativo, con un ruolo preminente del Presidente del Consiglio. Nell’ambito di tale condizione, peraltro, abbiamo assistito a una prima fase in cui il conflitto tra livelli territoriali (soprattutto Governo e Regioni) è stato soprattutto istituzionale e ad una seconda fase in cui il conflitto è diventato anche comunicativo.

b) Nel nostro Paese il discorso pubblico sembra essere stato quasi monopolizzato dal punto di vista “sanitario” sulla pandemia, con ricadute negative per la scelta delle priorità programmatiche e per un’analisi più completa dell’impatto della pandemia stessa.

c) Si continua ad osservare un conflitto difficilmente risolvibile tra l’esigenza di una comunicazione scientifica di alto livello e la media logic che domina il giornalismo mainstream e soprattutto il mondo dei social media.

I protagonisti del processo comunicativo italiano e i loro conflitti

Il primo elemento che salta agli occhi è che ad attivare il flusso della comunicazione istituzionale nel nostro Paese sulle tematiche pandemiche sia stato finora soprattutto il Presidente del Consiglio. Sia attraverso lo strumento normativo del Dpcm, sia attraverso l’adozione di una strategia comunicativa diventata con il passare del tempo una sorta di format (quello delle conferenze stampa in diretta tv e social, quasi sempre nella fascia del prime time), il capo del Governo si è assunto la responsabilità in prima persona della rappresentazione nella sfera pubblica mediata dei provvedimenti varati con l’intento di contenere la diffusione dei contagi. Ciò è accaduto in concomitanza della fase 1 e 2 della prima ondata e si è ripetuto anche in occasione della seconda ondata. La scelta del premier di ricorrere a una logica da “one man show” è stata giustificata da un lato con l’esigenza di evidenziare la presenza di una funzione di coordinamento dell’attività dei diversi ministeri anche sotto il profilo comunicativo, dall’altro con l’esigenza di segnalare all’opinione pubblica la determinazione a mediare tra il piano tecnico-scientifico della deliberazione ed il piano più politico, quest’ultimo in grado di garantire la messa a fuoco delle dinamiche connesse alla complessità del fenomeno, a partire dal trade off tra sanità ed economia. L’esigenza della trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione e quella di generare nella collettività la percezione di una visione sistemica (almeno nelle intenzioni) hanno incoraggiato il presidente del Consiglio a percorrere un modello top-down, ovvero centro-periferia, che alla prova dei fatti ha registrato non poche criticità, come per esempio quelle legate alle continue anticipazioni dei provvedimenti in discussione con l’intento di sondare l’opinione pubblica prima della comunicazione ufficiale delle misure: è accaduto anche domenica 26 ottobre 2020 con il Dpcm che ha sancito la chiusura alle 18 di bar e ristoranti e la sospensione delle attività di palestre e piscine domenica 1 novembre 2020 prima del varo del nuovo provvedimento ancora più restrittivo. 

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Nel complesso si tratta di uno schema che ha dovuto, altresì, fare i conti con strategie comunicative istituzionali e politiche di matrice territoriale. Nella primavera, infatti, il protagonismo di alcuni presidenti di Regione (peraltro premiati dal voto dello scorso settembre) era giustificato dalla doppia necessità di individuare risposte in linea con le aspettative dei singoli territori e dal fatto che la dialettica politica in assenza di un ruolo importante del Parlamento in quanto luogo della rappresentanza plurale delle istanze della collettività si stava inevitabilmente trasferendo dalle assemblee elettive alle pubbliche occasioni di confronto/scontro tra Governo e Regioni. Nella seconda ondata di contagi, ancora in corso, la dinamica della differenziazione geografica è diventata invece paradigmatica anche a livello comunicativo. Non è sbagliato a tal proposito parlare di regionalismo e di municipalismo comunicativo. Il risultato di questo scenario di riferimento? Messaggi contrastanti e poco chiari, contraddizioni da gestire a più riprese, nodi da sciogliere con un numero di difficoltà maggiori di quanto sia avvenuto in passato per la presenza (come del resto sancito dalla riforma del Titolo V della Costituzione) di materie di legislazione concorrente, problemi gestionali a fronte di una diversificazione della capacità di intervento dei servizi sanitari regionali. Talvolta si ha avuto (e si ha) la sensazione che, almeno guardando il fenomeno dal versante comunicativo, alcuni presidenti di Regione si siano mossi (e si muovano) nella sfera pubblica mediata come se il territorio di loro competenza vada amministrato in relazione alle questioni legate alla pandemia da Covid-19 in modo autonomo e svincolato da tutto il resto. Quasi sempre il parametro di valutazione di questo atteggiamento è stato dettato dalla propensione ad inasprire l’efficacia di alcune decisioni prese a livello nazionale: la riprova è data da quello che è accaduto in Campania, il cui governatore è stato protagonista di processi di marcata personalizzazione. Processi, oltretutto, in grado di garantire alle sue dichiarazioni/azioni una visibilità continua ed un palcoscenico mediale largo (trasmissioni nazionali su tutte le reti) e lungo (articolazione diacronica). In tal senso può essere interpretata anche la decisione del presidente della regione Puglia di chiudere le scuole.

 Il discorso pubblico italiano “medicalizzato” e i suoi limiti

Nel discorso pubblico italiano di questi mesi, sembra consolidata la tendenza a ricorrere al solo lessico medicalizzato nel rappresentare un fenomeno come la pandemia che, come annotano molti sociologi, va studiato invece come “fatto sociale totale”, ovvero come un fatto capace di produrre contemporaneamente conseguenze sociali in più sistemi e sottosistemi, a livello micro e macro, in una logica di causa ed effetto ma anche secondo traiettorie più irregolari in quanto reticolari, come del resto si addice all’era della ipercomplessità e della iperconnessione. Nonostante siano evidenti a tutti gli effetti devastanti sul sistema produttivo ed economico delle misure di lockdown (totale o parziale), le implicazioni relazionali e psicologiche, le ricadute antropologiche che secondo alcuni approcci inducono a separare l’umanità tra un’era ante-Covid ed una post-Covid (il riferimento in questo caso è al senso del limite, alla consapevolezza della vulnerabilità individuale, all’archiviazione del modello del superuomo, alla distanza sempre più marcata tra la percezione del superfluo e la percezione dell’essenziale, ad un nuovo concetto di libertà), la narrazione mediale e newsmediale continua ad essere incentrata sulle questioni inerenti la sola emergenza sanitaria. Si tratta certamente dell’emergenza più grave, ma non dell’unica emergenza da affrontare. La costruzione del contenuto narrativo secondo questa impostazione contenutistica ed argomentativa condiziona da mesi l’intera offerta informativa e la programmazione di molti prodotti di infotainment. Si tratta di una narrazione scandita dalla comunicazione quotidiana dei dati relativi ai “nuovi positivi”, ai ricoveri ospedalieri, ai trattamenti di terapia intensiva, ai decessi e ai guariti. 

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Il fulcro del racconto giornaliero ruota intorno a questo elemento “quantitativo” sottoposto all’attenzione del pubblico di tg e talk show, ai lettori di stampa di massa quotidiana e periodica, agli ascoltatori radiofonici, agli utenti dei quotidiani online, ai fruitori delle piattaforme newsfeed e social con l’intento di scongiurare la pressione sul sistema sanitario nazionale e regionale. Una simile modalità di comunicazione da una parte ha comportato e comporta una selezione delle aree geografiche sulle quali concentrare maggiore attenzione, in quanto aree con il maggior numero di “nuovi positivi” (selezione a volte troppo semplicistica), dall’altra ha fatto passare in secondo piano interpretazioni di tipo “qualitativo” su quanto sta accadendo e sui possibili scenari futuri da costruire in chiave non solo multi ma anche interdisciplinare. Uno sguardo ai palinsesti televisivi delle principali reti italiane ci induce ad annotare nel contempo la trasformazione di una parte consistente della programmazione in spazi condizionati dalla logica “all news”, anche quando il codice sia quello del light entertainment della tv generalista. Le ragioni dell’aggiornamento e dell’approfondimento prevalgono su tutto il resto, qualunque sia la fascia oraria della messa in onda dei programmi. I quotidiani si trasformano in monografie. La monopolizzazione tematica costituisce il presupposto per una ridondanza comunicativa che nei media elettronici rischia di produrre persino un effetto saturazione. Effetto, oltretutto, enfatizzato da una sorta di gioco di specchi tra i contenuti prodotti dalla tv e dalla stampa quotidiana e quelli veicolati attraverso i social grazie a dirette, post, interazioni e condivisioni di contenuti narrativi della pandemia. Del resto, le stesse conferenze stampa del Presidente del Consiglio sono andate in onda contestualmente sulle tv generaliste e gli account social (soprattutto Facebook) di Palazzo Chigi e dello stesso premier in quanto persona fisica. Assistiamo, dunque, ad un evidente processo di ibridazione tra il modello “one to many” tipico della comunicazione di massa e i modelli “one to one”, “many to many”, “many to one” tipici invece della platform society. Una modalità di trasmissione e ricezione dei contenuti che ha restituito al ricevente un ruolo molto più attivo e che ha contemplato l’ipotesi della consultazione in tempo reale dei destinatari dei singoli provvedimenti con l’intento di sondarne il gradimento e soprattutto, trattandosi di limitazioni alla libertà personale, di sviluppare capacità di sopportazione e di resilienza. Ancora una volta abbiamo avuto la riprova della sovrapponibilità dell’agire deliberativo (istituzionale e politico) con quello comunicativo (nel senso habermasiano del termine). Come si diceva in precedenza, si tratta di una condotta problematica soprattutto perché più compatibile di altre con la creazione di effetti disorientanti, spiazzanti, mutevoli, talvolta fonte di panico diffuso.

Comunicazione scientifica vs. logica giornalistica e social: un conflitto obbligato?

La premessa del ragionamento in questo caso ruota intorno alla necessità di distinguere tra efficacia, ovvero strategia in ordine a canali, codici, contesto e timing della comunicazione ed effetti, ovvero conseguenze dirette o indirette, intenzionali o meno, a breve, medio e lungo termine. È questo l’ambito tematico nel quale sperimentare nel concreto la differenza che passa tra distorsione volontaria ed involontaria. Negli ultimi mesi abbiamo tutti fatto esperienza di cosa significhi misurarsi con la realtà e la dimensione della “infodemia”. Questo termine compare per la prima volta nel 2003 in un articolo pubblicato sul Washington Post da David Rothkopf (politologo e giornalista americano), ma successivamente viene elevato a paradigma semantico dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) per esprimere in senso connotativo il significato della circolazione eccessiva di informazioni contradditorie, spesso non verificabili e non verificate. Informazioni che rendono difficile l’orientamento della collettività rispetto ad una determinata materia, specie quando la paura scivola in direzione dell’angoscia e del panico diffuso. Il ruolo dei media, indipendentemente dai linguaggi prodotti, va interpretato partendo dalla doppia consapevolezza che le scienze sono strettamente legate alle nostre culture e alle nostre forme di comunicazione, peraltro sempre più inclini alla dinamica del relativismo, non foss’altro come conseguenza del continuo allargamento della produzione e della ricezione dei contenuti. Non dimentichiamoci che la scienza è intrinsecamente comunicativa poiché contiene al suo interno l’esigenza di una piena legittimazione attraverso esperienze di condivisione degli esiti dell’attività di ricerca. Il discorso varia a seconda che si ricorra ad una comunicazione orizzontale (fra soggetti assimilabili per competenza ed interesse, ma anche tra soggetti assimilabili per incompetenza) o ad una comunicazione di tipo verticale (dallo scienziato al pubblico, in pratica dall’alto al basso e per il tramite della mediazione dei mezzi di comunicazione ed informazione). La sfida è doppia. Da un lato si tratta di “alfabetizzare scientificamente” i media, dall’altro di “alfabetizzare mediaticamente” la scienza per trasformare, come dice Latour, i “fatti duri” in “fatti morbidi” e quindi accessibili ai più, se non a tutti. È noto che nel caso della comunicazione scientifica esiste un doppio problema di qualità e di quantità delle informazioni. In relazione a questa seconda opzione il problema è soprattutto quello di individuare le modalità migliori per contrastare la formazione e la diffusione di quelle a rischio.

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L’oscillazione da considerare è, perciò, quella tra “informazioni” e “informazione”, parola da intendere in quest’ultimo caso come processo e come sistema in grado di recuperare l’interposizione simbolico-culturale di organizzazioni professionalizzate. È la media logic a condizionare il confezionamento dei contenuti scientifici, contestualmente alla consapevolezza che siamo in tanti a parlare a tutti e a ciascuno e per giunta su tutto o quasi tutto. Dietro l’angolo ci sono distorsioni che non sono ricollegabili quasi automaticamente alle fake news. Questo va detto con chiarezza e in premessa di ogni possibile ragionamento sul tema. I media raccolgono spesso opinioni, ma le opinioni in quanto tali non rappresentano di certo la verità assoluta. E, comunque, bisogna saper bilanciare il peso anche delle opinioni, oltre che delle notizie. La vicenda Covid-19 docet. Il giornalismo, colpevolmente sia ben chiaro, cancella talvolta dalla propria attività quotidiana sfumature e interrogativi. Elargisce spesso certezze anche quando non dovrebbe farlo. Capita anche che ci si innamori delle idee minoritarie perché esse fanno più notizia e che invece si minimizzino quelle riconducibili alla stragrande maggioranza della comunità scientifica solo perché già note. Vale anche il contrario, naturalmente. Sempre a fini esemplificativi, è utile ricordare quanto scrivono a tal proposito Cloitre e Shinn che individuano quattro livelli di comunicazione scientifica: il livello intra-specialistico come per esempio un paper pubblicato su una rivista di settore; il livello inter-specialistico come gli articoli pubblicati su “riviste ponte”, ad esempio Nature o Science; il livello pedagogico come avviene con i manuali destinati ai discenti; il livello popolare come avviene infine con articoli pubblicati sui quotidiani, con i servizi dei telegiornali e dei giornali radio, con le trasmissioni di approfondimento. Si tratta di una dinamica che può essere raffigurata anche con la metafora dell’imbuto. Metafora che tuttavia va ripensata, immaginando le incursioni della comunicazione interpersonale nei terreni di gioco propri della comunicazione istituzionale e di massa, soprattutto quando si passa dal livello pedagogico a quello popolare. È quello che sta avvenendo con la comunicazione ai tempi del coronavirus.

Tre date da mettere in evidenza

Vanno messe in evidenza tre date. Nel 2013 il World Economic Forum ha inserito la disinformazione tra i rischi globali del pianeta. Nel 2016 l’Oxford Dictionary ha stabilito che la parola chiave dovesse essere post-truth. Nel 2017 il Consiglio d’Europa ha elaborato infine un rapporto intitolato Information disorder. In questo rapporto si prevedono sostanzialmente due dimensioni applicative. La prima è quella della disinformation, ovvero della volontà di costruire notizie false per orientare comportamenti collettivi dopo aver modificato idee e opinioni individuali. La seconda è la misinformation, ovvero la diffusione involontaria di notizie false che si propagano in modo virale, indipendentemente dall’azione specifica del produttore dei contenuti. È evidente che il discrimine tra la prima e la seconda tipologia risieda nella intenzionalità o meno dell’agire comunicativo, quando e se esso è effettivamente finalizzato alla proposizione nella sfera pubblica mediata di elementi in grado di alterare la dinamica democratica o il funzionamento dei mercati. Attenzione, però, perché la non intenzionalità, almeno nella produzione dell’effetto finale di manipolazione o di parziale modificazione della realtà rappresentata e rappresentabile, è anche la chiave per leggere anche la distorsione involontaria nei processi di newsmaking da parte dei newsmedia mainstream. Distorsione che si verifica in ordine alla raccolta delle informazioni, ai valori e ai criteri di selezione del   materiale notiziabile, alle modalità di gerarchizzazione e di trattamento delle notizie, alle logiche di tematizzazione attraverso le quali si decontestualizzano e si ricontestualizzano gli accadimenti che potrebbero essere trasformati dai newsmaker in veri e propri contenuti editoriale. Nella letteratura scientifica una possibile risposta a questo problema è stata individuata nell’innalzamento del livello di competenza degli attori dell’intero ecosistema mediale.

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Coronavirus, la pandemia nel mondo raccontata dai progetti fotografici

Cnaipic - Presentazione nuovo servizio segnalazione istantanea contro fake news - ©LaPresse

Fake news, hate speech e deepfake sono un effetto collaterale dell’orizzontalizzazione dei processi comunicativi, della prosumerizzazione, della metamorfosi dell’intero sistema che ormai si regge su un ruolo interattivo e co-creativo nella generazione e diffusione dei contenuti da parte degli utenti del web 2.0. Il risultato più evidente di tutto quanto qui si sta sostenendo, anche se in linea generale, è che (a maggior ragione davanti alle sfide della società pandemica) siamo chiamati a governare non solo la dinamica polarizzante “verità-falsità”, ma anche quelle più subdole “verità-verosimiglianza”, “reale-realistico”, “fatti-fatti estesi”. Si inserisce qui il tema del rapporto esistente tra la percezione o la dispercezione da un lato e l’informazione, la disinformazione, la malinformazione e la misinformazione dall’altro. Un equilibrio difficile da ricercare e governare, che spesso ha comportato l’adozione da parte dei newsmedia di un codice pedagogico e paternalistico. Prova ne è l’uso nella comunicazione istituzionale di un’intonazione prescrittiva con il ricorso a divieti e a ferree raccomandazioni su ambiti di stretta pertinenza della comportamentalità individuale. Un risvolto su cui riflettere.