Ospiti del direttore Giuseppe De Bellis, nel primo dei quattro appuntamenti ci sono Paul Berman, Alec Ross, Gideon Lichfield, Gianpiero Petriglieri e Carlo Ratti
“Il passato è certo, il presente è brevissimo, il futuro dubbioso”. Il direttore di Sky Tg24 Giuseppe De Bellis apre la prima puntata dell’approfondimento “Idee per il dopo” (GUARDA LA PRIMA PARTE - GUARDA LA SECONDA PARTE) con una citazione di Seneca di duemila anni fa. “Mai come in questo momento il futuro è dubbioso davvero - prosegue il direttore - ed è fatto di domande: come saremo dopo l’emergenza? Come sarà la nostra politica? Come sarà la nostra economia? Come sarà la nostra società?”. Ci sono domande, ci sono risposte e ci sono parole chiave che sono futuro, lavoro, leadership, società e mobilità. Non siamo ancora fuori dall’emergenza sanitaria e siamo dentro la crisi economica che ne è la conseguenza, ma non possiamo più aspettare. Dobbiamo pensare al dopo, un dopo che vuol dire anche “con”, perché dovremo imparare a convivere con il Coronavirus, a vivere tutti insieme in una nuova modalità. Per capire come, abbiamo deciso di partire dalle idee: "Idee per il dopo". Con noi penseranno a queste idee per il dopo tanti scienziati, tanti sociologi, tanti economisti, persone che hanno immaginato il futuro e che adesso stanno pensando a come far partire la nuova normalità. In questa prima puntata sono con noi: Paul Berman, saggista; Alec Ross, autore; Gideon Lichfield, direttore Mit Technology Review; Gianpiero Petriglieri, professore associato di comportamento organizzativo; e Carlo Ratti, direttore Mit Senseable City Lab.
GLI INTERVENTI DELLA PRIMA PUNTATA
Giuseppe De Bellis: Petriglieri, in questa crisi e soprattutto durante le grandi analisi che sono state fatte in questi giorni, abbiamo capito che, non si esce da soli, non ci si salva da soli. Da questa emergenza quindi si esce se si fa un grande sforzo collettivo, se tutti insieme ci si mette, a livello globale, a capire come poterne uscire. Ma quello che accadrà dopo, sarà il tentativo di tornare a una nuova forma di comunità globale oppure prevarranno gli egoismi dei singoli individui o delle singole nazioni?
Gianpiero Petriglieri: Sicuramente è un momento particolare, dal punto di vista della comunità globale diciamo che la possiamo pensare come una crisi di mezza età della globalizzazione. Un evento straordinario, una malattia che fa emergere delle fragilità e dei limiti sia a livello economico, istituzionale che a livello personale, intimo ed esistenziale che erano già lì, già di fondo (il dopo è cominciato una ventina di anni fa) e che adesso bisognerà affrontare. Come dice bene lei, nelle crisi di mezza età si può diventare più stupidi e si può, a volte, diventare più saggi. Dipende non soltanto dalle comunità, ma dalle qualità delle relazioni. Ci sarà probabilmente una polarizzazione ancora più intensa di quello che abbiamo visto tra chi spingerà ancora di più per riconoscere che siamo tutti parte di una comunità globale, che viviamo su un solo pianeta, e ci saranno quelli che vorranno ancora di più rinchiudersi in una società quasi tribale. Abbiamo avuto già un assaggio della tensione tra queste due fazioni e la vedremo probabilmente intensiicarsi ancora di più. Sicuramente non se ne esce da soli, ma certamente in questi giorni ci si sente molto più soli, per cui riuscire ad attraversare un momento di solitudine e ritrovare un impulso relazionale è sempre difficile: dipende sia dal nostro coraggio ma anche dalle opportunità che ci si presentano.
Giuseppe De Bellis: Lei tra individualismo e collettività pensa che ci sia comunque più bisogno di collettività?
Gianpiero Petriglieri: Sicuramente c’è più bisogno di collettività. Diciamo che questa crisi ci ricorda che, anche se isolati, comunque abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Alla fine perché il distanziamento sociale non è soltanto un puro spirito di sopravvivenza è anche un atto di generosità, anche nella solitudine ci si ricorda della necessità dell’altro e ci sarà anche la tentazione di volersi allontanare dall’altro. Vedrem, ma sicuramente non si scappa dalla comunità. L’essere umano è un primate troppo fragile per sopravvivere da solo, ma anche troppo cosciente per non avere un certo individualismo.
Giuseppe De Bellis: Berman è d’accordo sul fatto che, in questo periodo, tante volte si è citato il paragone con una guerra: la guerra della generazione di chi non ha fatto la guerra. Forse questo paragone è un po’ improprio, però potrebbe essere più appropriato pensare al dopo come a un dopoguerra. Secondo lei, saremo in un dopoguerra? Saremo come sono stati i nostri nonni alla fine della Seconda Guerra Mondiale oppure questa è un’era totalmente diversa?
Paul Berman: Da un punto di vista americano, sto parlando da Brooklyn, New York, non abbiamo l’impressione di essere una società che non ha combattuto una guerra. Abbiamo combattuto diverse guerre in questi anni e, nel bene o nel male, è un dato di fatto. Ma capisco la sua domanda e io penso che siamo in una posizione che ricorda molto da vicino la guerra e che stiamo affrontando gli stessi quesiti che l’umanità si è posta durante e dopo la guerra mondiale, più di 70 anni fa. Sono le stesse domande a cui ha cercato di dare una risposta Petriglieri: ci sarà una reazione collettiva a tutto quello che accade nel mondo? E in caso affermativo sarà migliore di quella che c’è ora? Oppure tutto questo provocherà un ritorno alla situazione politica che era in vigore prima della Seconda Guerra Mondiale? Che poi è lo stesso mondo in cui c’erano nazionalismi separatisti, belligeranti oppur basati sulla tenuicità, e altri movimenti simili. Quelle sono le domande, quelli sono gli interrogativi che in questo momento dobbiamo porci nella vita di tutti i giorni in ogni Paese e sono gli stessi a livello internazionale. Gli Stati Uniti, in questo frangente, si trovano in una situazione in cui queste domande non hanno ancora una risposta. Quelli sono esattamente i quesiti a cui dovranno rispondere i candidati alle elezioni presidenziali che avranno luogo alla fine di quest’anno.
Giuseppe De Bellis: Alec Ross, ha fatto dei ragionamenti, in questo momento, sul fatto che durante il lockdown si è pensato tantissimo a quello che stava accadendo fuori, a quello che accadeva negli ospedali, a quello che sta accadendo in tante parti del mondo con tante vite che vengono perse e la paura di tante famiglie di perdere i propri cari. Però ci sono tutti i cittadini, in tutto il mondo, che sono chiusi nelle loro case e che probabilmente alla fine della crisi perderanno il lavoro o avranno degli impatti economici molto importanti sul loro futuro. Mi chiedo, e la domanda è un po’ provocatoria, la perdita della vita è il bene più prezioso che si rischia di perdere, ovvero la vita è ancora il bene più prezioso oppure anche il lavoro, anche la dignità dell’uomo successiva alla riuscita dalle tane delle nostre case è altrettanto importante e sarà bene non privare troppa gente di questa dignità?
Alec Ross: Grazie per questa domanda davvero importante. Sono convinto che tutti gli americani abbiano con l’Italia un debito di gratitudine, se negli Usa non avessimo visto quello che stava succedendo in Italia, la devastazione che sta avendo luogo in Lombardia e in tutte le altre regioni del Nord, non ci saremmo mai chiusi in casa anche noi. Penso che tutti dobbiamo molto all’Italia per aver mostrato al mondo intero quello che stava realmente accadendo. Riguardo la sua domanda, se penso che la vita abbia un valore maggiore dell’economia, quella che ci troviamo di fronte è una scelta impossibile che si riassume in quanto velocemente possiamo far ripartire l’economia, perché se il processo fosse troppo rapido, potreste pensare che vada tutto bene seriamente, ma non conterebbe nulla se ci rimettereste la vita. Per questo motivo sarebbe un errore ancora più grande far ripartire la nostra economia troppo presto per tutti con la paura che, a causa di questa fretta, si vada incontro al rischio di un nuovo picco, una nuova serie di picchi di contagio del virus. I virus non rispettano le leggi dell’economia, loro portano soltanto devastazione e tutte le nostre economie stanno subendo ingenti danni a causa di questa situazione. Ma sono convinto che sia una falsa scelta dire, o salvi l’economia o salvaguardi la tua salute, perché se cerchi di salvare l’economia, facendo uscire le persone troppo presto, qualunque spinta economica si verifichi potrà durare qualche settimana, ma si esaurirà in pochi mesi.
Giuseppe De Bellis: Lichfield, mi interessa il suo punto di vista sulla tecnologia perché nel lockdown abbiamo capito quanto la tecnologia è importante nelle nostre vite, ma abbiamo forse capito anche quanto siamo dipendenti dalla tecnologia. Secondo lei siamo entrati definitivamente nell’era in cui le macchine dovrastano l’uomo o no?
Gideon Lichfield: Non c’è mai stata un’epoca finora in cui le macchine siano state più importanti dell’uomo o roba del genere, ma quello che stiamo osservando è una dipendenza crescente dalla tecnologia, soprattutto in alcuni ambiti, ovviamente questo si può già capire da quello che stiamo facendo adesso: siamo tutti seduti nei nostri salotti connessi via Skype in questa videoconferenza per parlarci a vicenda. Credo che assisteremo a un aumento della dipendenza da alcune tecnologie come le intelligenze artificiali che avevano già iniziato a farsi strada, per esempio, nella sanità dove sono state usate nella diagnosi di alcune patologie o nei sistemi di priorità del pronto soccorso per scegliere quale paziente trattare per primo. Assisteremo a un’accelerazione di questi processi perché è risultato molto utile durante il Covid-19. Alcune di queste tecnologie, che siamo stati costretti a implementare a causa della malattia, non verranno eliminate quando tutto questo finirà, verranno portate avanti. L’intelligenza artificiale verrà usata nel campo della medicina e vi sarà un’automazione più utile nei posti di lavoro, probabilmente crescerà l’uso delle videoconferenze, delle conferenze virtuali e delle riunioni virtuali perché ci stiamo rendendo conto che alcuni degli sppstamenti che compivamo non erano necessari e penso che questo possa essere un fatto positivo. Credo anche che quello che tutto ciò sottolinea è la nostra dipendenza dalla tecnologia per risolvere una crisi come il Covid. Quello che conta non è la tecnologia, ma sapere come usarla nel modo più corretto e avere dei governi che siano tecnocraticamente capaci e che siano in grado di comprendere le potenzialità della tecnologia nella scienza e come applicarla. Come farlo in modo responsabile proteggendo i dati delle persone, per esempio, quando si monitora una malattia e penso che questo rafforzi il discorso che ha fatto prima Alec. Negli Stati Uniti abbiamo un governo che non comprende a pieno l’importanza di dare il giusto peso alla scienza e alla tecnologia quando si tratta di gestire questa emergenza e si concede di rilasciare delle dichiarazioni piuttosto inesatte. Guardando il resto del mondo le nazioni che hanno resistito meglio al Covid non sono le democrazie o i regimi di stampo autoritario, sono quelli che comprendono il ruolo della tecnologia nell’amministrazione e che riescono a farle convivere.
Giuseppe De Bellis: Ratti, la conseguenza della pandemia sarà anche cambiare il nostro concetto di tempo, forse è già cambiato. Per certi versi è aumentata la velocità, per certi versi ci sembra che sia rallentata, le voglio chiedere, anche in questo caso un po’ provocatoriamente, non è che forse il tempo ha perso un po’ d’importanza?
Carlo Ratti: Direi che il rapporto col tempo e con lo spazio è cambiato molto in queste settimane come cambia di solito nei periodi in cui siamo malati o siamo in ospedale. Ecco, forse ancora più che col tempo è cambiato il rapporto con lo spazio. Siamo chiusi in casa, qui in America un po’ di meno, c’è un po’ più di flessibilità, nel modo di organizzare la quarantena, si può ancora andare fuori, però chiaramente quello che era un viaggio, uno spostamento più lungo è diventato confinato, è diventato quasi un viaggio all’interno dei nostri appartamenti. Al tempo stesso questo cambio del tempo e dello spazio, di restringere entrambi gli orizzonti ci permette di scoprire cose nuove e quindi è da qui che viene molta creatività. Vorrei vedere anche questa crisi, per una volta, in senso positivo ricordando Rahm Emanuel quando dice “non sprechiamo mai una crisi”, insomma una crisi è un momento in cui tutto cambia intorno a noi e dobbiamo ripensare a noi stessi e reinventarci. Cambiano il tempo e lo spazio ma ci permettono anche di riscoprire dimensioni che prima forse avevamo dimenticato.
Giuseppe De Bellis: Torno da Lichfield perché m’incuriosiva il discorso sulle multinazionali e sul rapporto dei governi anche con alcuni dei tentativi di trovare una strada per superare la crisi, sia a livello diagnostico, sia poi a livello politico. Trovare un vaccino, che in questo momento è la cosa più importante a cui tutti stanno puntando, è sia un risultato importante dal punto di vista clinico, medico, ma diventerà anche un risultato importante a livello geopolitico, cioè il Paese che avrà il vaccino per primo si conquisterà un vantaggio politico anche nella competizione globale. Trump ha detto più volte di voler avere il vaccino per primo, abbiamo anche visto delle polemiche che ci sono state con la Germania. Le voglio chiedere: è così importante arrivare in fretta e conquistare il predominio, gli scienziati stanno correndo troppo, dobbiamo avere il coraggio anche in questo caso di rallentare e trovare la strada giusta o è davvero la corsa più importante e arrivare per primi è la chiave del successo per tutti?
Gideon Lichfield: Credo che la cosa più importante sia superare la crisi e ritornare a quella che riteniamo essere la normalità. Finché non avremo un vaccino, tutto il resto non sarà altro che una soluzione parziale. La cosa essenziale da tenere a mente è che non sappiamo non solo quanto ci vorrà a sviluppare un vaccino, ma anche quanto sarà efficace e quanto durerà. Può darsi che come per l’influenza o per altri Coronavirus l’evenetuale vaccino duri pochi mesi e che serva vaccinarsi più volte e non sappiamo quali saranno gli effetti di ciò. Le persone potrebbero contrarre il virus ogni anno e specialmente gli anziani e i soggetti più vulnerabili sarebbero a rischio tutti gli anni. Non sappiamo come questo cambierà il mondo. Credo che l’altra domanda che mi hai fatto sia questa, ammettiamo che un Paese scopra un vaccino per primo, vuol dire che gli altri Stati lo riceveranno più lentamente? La mia preoccupazione è che possa succedere se saranno gli Stati Uniti a scoprirlo e che possano provare a limitarne l’esportazione o la concessione ad altri Paesi perché preferiscono tenere tutti i vaccini per se. Questo è chiaramente un ambito in cui tutti gli scienziati e i vari Stati devono essere in grado di cooperare, il mondo deve essere in grado di produrre un vaccino per tutti i suoi abitanti più velocemente possibile. Ciò che mi preoccupa è il nazionalismo sempre maggiore che stiamo osservando, il rischio è che si erigano barriere sempre più indistruttibili e che gli Stati cerchino di ottenere un vantaggio attraverso le tecnologie mediche che dovrebbero essere disponibili per tutti.
Giuseppe De Bellis: Volevo sapere anche l’opinione di Alec Ross su questa divisione tra cooperazione e voglia di chiusura, di chiudersi in se stessi, non soltanto sotto il punto di vista americano, ma se mi può allargare lo scenario anche al resto del mondo.
Alec Ross: Trattandosi di un virus pandemico non rispetta i confini, continuerà a diffondersi in tutto il mondo e tuttavia noi siamo organizzati in 196 Stati sovrani differenti e le scente compiute in un Paese sono molto significative, per quelli confinanti. Ritengo che si siano già visti degli esempi promettenti di come il virus possa essere gestito attraverso alcune pratiche, come il monitoraggio e i test nell’estremo oriente. Il problema, e il motivo per cui l’altro ospite è critico nei confronti degli Stati Uniti, non vorrei, ma devo dargli ragione, è che l’America è un Paese altamente individualista, è nella nostra cultura, non abbiamo la stessa mentalità che si vede a Singapore, in Corea del Sud o anche in altri Stati europei, dove le persone accettano di rinunciare ad alcune libertà individuali per il bene collettivo. Al momento, la mancanza di un governo mondiale, l’assenza di un’armonia fra le varie nazioni e soprattutto della scienza che guidi tutte le decisioni che vanno prese, credo sia pericoloso. Per riallacciarmi a ciò che ha detto il professor Berman all’inizio, la politica presidenziale americana è fondamentale. Da un lato c’è Donald Trump, che è nazionalista e tribalista, e francamente se scoprissimo un vaccino negli Stati Uniti, l’azienda che lo ha sviluppato potrebbe dover opporsi al loro presidente per assicurarsi che quel vaccino possa circolare in tutto il mondo. Dall’altro c’è Joe Biden che è un fiero internazionalista con dei valori molto diversi e, sebbene io non gradisca affatto Donald Trump avendo lavorato 6 anni per Barack Obama, riconosco che c’è forse un 50% di possibilità che vinca di nuovo le elezioni. Quindi gran parte di ciò che ci sarà dopo, con la diffusione di questo virus, si ridurrà a essere nient’altro che una bruttissima forma di politica di carattere quasi tribale. Effettivamente a novembre vedremo se la pandemia, il Coronavirus, avranno o meno un impatto sulla nostra capacità di votare e se Trump riuscirà a manipolare le elezioni usando il coronavirus come una scusa, quindi la democrazia stessa è a rischio in questa crisi.
Giuseppe De Bellis: Volevo chiedere a Petriglieri, visto che si è citata la leadership, se lei vede, in questo momento in cui tutti siamo alla ricerca di leader che ci guidino nella nebbia di questo momento, una difficoltà di trovare una leadership globale o anche locale o se, invece, c’è uno spiraglio. C’è qualche speranza per intravedere, che sia uno scienziato, che sia un leader politico, qualcuno che indica la strada che interpreti la leadership nella maniera miliore?
Gianpiero Petriglieri: Dal punto di vista della leadership è un momento rischiosissimo perché io non vedo tanta leadership quanto tanto leaderismo, per cui questo è un accentuarsi rischiosissimo di questo impulso di cercare leader che ci risolva tutti i problemi. Il leader come cura miracolosa, il leader come vaccino, quando abbiamo bisogno più che altro delle istituzioni. La metafora della guerra è familiare sia nell’economia sia nella politica. ci siamo preparati per decadi, le nazioni si sono praparate alla guerra, i leader si sono preparati alla guerra, Macron nel suo primo discorso alla Nazione ha detto 5 volte “siamo in guerra”, Trump nei suoi press briefing non fa che dire che i dottori che vanno in ospedale a Central Park gli ricordano i soldati che vanno al fronte, parliamo della Lombardia come il fronte, ecco questo è rischiosissimo. È rischiosissimo perché la guerra mette i leader di una popolazione in una mentalità di competizione, in una mentalità di vinco io, vinci tu, mentre una crisi sanitaria globale non è una guerra. Non c’è il nemico, non c’è il cattivo nelle caverne da andare a scovare, non c’è la vendetta, non c’è il confine da proteggere, siamo tutti esposti ma a un’ansia non di un attacco di un nemico ma a un’ansia esistenziale, per cui una crisi globale non si risolve con la guerra ma si risolve con la cura. Se vogliamo cercare una leadership competente guardiamo alle terapie intensive, non guardiamo ai generali, non guardiamo agli atleti, non guardiamo ai profeti che sono i nostri classici modelli di leadership. Qui abbiamo bisogno del clinico, dello scienziato, di quello che abbiamo denigrato per decadi, il noiosissimo manager che organizza una risposta capillare, che coordina, che controlla, che guarda i dati, che guarda la scienza, prende magari delle decisioni difficili non soltanto per il benessere economico o soltanto per il benessere sociale, ma per trovare un compromesso tra questi imperativi diversi. Tutto questo noi lo abbiamo diminuito con il culto della leadership che ci ha intossicato e che ci ha sedotto negli ultimi trenta/quaranta anni e adesso ne paghiamo il presso.
Giuseppe De Bellis: Torno da Berman perché prima Alec Ross parlava della capacità di reazione che hanno avuto alcuni Paesi dell’estremo oriente, allora mi chiedo ci sarà un nuovo equilibrio tra Est e Ovest?
Paul Berman: Vorrei iniziare tornando alla domanda su scienza e nazionalismo perché mi serve per fare una considerazione che credo sia d’obbligo. Da un punto di vista globale possiamo osservare, che in un certo senso, si è instaurata una vasta lotta tra la scienza e il nazionalismo. La scienza è per natura internazionalista, ce ne stiamo accorgendo adesso perché nel cas in cui venga sviluppato un vaccino, e speriamo vivamente che accada, sarà con tutta probabilità il risultato di una cooperazione tra gli scienziati di diverse nazioni. Stiamo già osservando questo fenomeno, nei promettenti studi per sviluppare una terapia che è meno di un vaccino, c’è stato un gruppo di scienziati brasiliani a offrire un contributo importante solo una settimana fa, riguardo il farmaco a base di idrossiclorochina, che il presidente degli Isa ha promosso. Sono stati gli scienziati brasiliani i primi a farsi delle domande in questa direzione e sappiamo che i norvegesi hanno contribuito notevolmente. Inoltre da un certo punto in poi c’è stata una notevole coordinazione e cooperazione con gli scienziati della Cina, degli Usa e di altri Paesi, quindi è qualcosa che esiste realmente perché è nella natura della scienza avere questa collaborazione. Quella a cui stiamo assistendo è una lotta tra la scienza e un certo tipo di politica, questa è la mia considerazione. Tornando alla domanda sul liberalismo, sulla libertà di est e ovest, non sono convinto che ci siano probabilità di vedere un grande conflitto tra l’est, in particolare l’estremo oriente, e l’ovest. Secondo me possiamo fare una distinzione tra le diverse culture sulla base della solidarietà, ma è davvero questa la ragione dietro al successo della Corea del Sud? La loro risposta è stata davvero ammirevole, in quello Stato c’è un governo abbastanza progressista che sta gestendo la situazione piuttosto bene. Anche il governo tedesco si sta comportando meglio che molti altri Paesi del mondo occidentale. In realtà non è una distinzione tra est e ovest, la differenza la fanno i valori che si trovano in una società, soprattutto rispetto alla scienza.
Giuseppe De Bellis: Ratti, c’è Milano, c’è Madrid, c’è New York, sembra che le grandi aree metropolitane abbiano pagato un prezzo molto pesante. Lo dicono i numeri, lo dicono le immagini che vediamo e viviamo. Noi siamo qui a Milano e lo vediamo tutti i giorni. Ci sono delle conseguenze che avranno le grandi aree metropolitane nel mondo dopo l’uscita dalla crisi sanitaria e la conseguente crisi economica? Cambieranno le città?
Carlo Ratti: È una domanda molto importante, è chiaro che le aree metropolitane oggi soffrono di più perché è dove c’è maggior densità e il virus si diffonde più in fretta dove c’è maggior densità. Però, al tempo stesso, se guardiamo al passato le nostre cittò nascono all’incirca 10mila anni fa. Diecimila anni fa l’uomo scopre questo bellissimo meccanismo che ci permette di essere insieme, di fare in modo insieme di essere più della somma di ciascuno di noi come individui. Le città diventano un bellissimo condensatore delle energie umane. Da quando sono nate, le cittò hanno visto moltissime pandemie ed epidemie, alcune anche molto più severe di quella che stiamo vivendo adesso, pensiamo che Venezia nel XIV secolo perde circa il 30-40% della propria popolazione, pensiamo anche ad altre epidemie successive, ciò nonostante noi continuiamo ad apprezzare le calli di Venezia e abbiamo continuato ad abitarle e a viverle per centinaia d’anni, quindi io credo che dobbiamo dividere due periodi: il primo periodo è il periodo della ripresa dei prossimi mesi, speriamo che duri poco, per ripresa intendo quando usciremo dalla crisi attuale e poi il periodo un po’ più di lungo termine, in quello di lungo termine io penso che le nostre città risorgeranno in maniera simile a prima. L’abbiamo visto, se noi pensiamo a una delle ultime grandi pandemie, all’influenza spagnola di circa un centinaio d’anni fa, quello che è successo dopo nei ruggenti anni venti del secolo passato, furono degli anni di sublimazione della vita urbana con un grandissimo fervore nelle città di tutto il mondo. Penso che le nostre città hanno visto di peggio e ritorneranno. Quello che non tornerà probabilmente sono cose che stavano già cambiando prima. Per esempio il lavoro pensato in modo più flessibile, in parte a distanza, stava già cambiando e la crisi ha accelerato i cambiamenti che erano in corso. Oppure i cambiamenti portati dalle tecnologie, per quanto riguarda i trasporti, tutto questo è stato un po’ accelerato da queste settimane di crisi.
Giuseppe De Bellis: Volevo chiedere a Ross, sappiamo lo abbiamo detto prima che la digitalizzazione è un processo inarrestabile, ma dobbiamo avere paura che il controllo della nostra vita possa aumentare, dobbiamo avere paura di essere meno liberi nel futuro? Che anziché andare verso una democrazia liberale che abbiamo vissuto per tutti questi anni, torneremo indietro in una tecnocrazia che riduce le nostre libertà?
Alec Ross: In questo momento ci sono due paradigmi per quello che chiamiamo l’uso dei dati nelle questioni sulla privacy. Il primo è il modello cinese, l’altro quello americano. In quello cinese il governo è in grado di usare la tecnologia per sorvegliare la popolazione e monitorare e tenere sotto controllo tutte le comunicazioni. Ci sono 300milioni di telecamere solo in Cina. Negli Stati Uniti c’è soltanto un gruppetto di ragazzi ventenni-trentenni della California che ha tutto questo potere. Quindi, se io sono italiano, se sono europeo e non voglio né il modello cinese - con le autorità che controllano le informazioni - né tantomeno quello americano - con le singole multinazionali che cercano solo di fare soldi, che hanno accesso illimitato ai miei dati e alle mie informazioni personali - sono convinto che questa sia una grande opportunità per dare vita a un nuovo modello europeo o italiano di come approcciarsi a questo tema. Per come la vedo io, la terra è stata la materia prima dell’era dell’agricoltura, il ferro è stato la materia prima dell’era industriale, i dati sono la materia prima dell’economia di oggi e di domani. Quindi il modo in cui viene regolato l’uso dei dati avrà la stessa importanza che avevano la gestione della Terra durante l’era agricola e il modo in cui erano organizzate le industrie e le fabbriche durante l’era industriale. Quindi c’è molto di cui avere paura e il risultato non c’è ancora noto, ma credo che questa sia un’ottima occasione sia per l’Europa che per l’Italia di imporre dei propri modelli che possono essere in contrapposizione allo stile americano e a quello cinese.
Giuseppe De Bellis: Lei è molto ottimista per l’Europa e per l’Italia. Molti invece in Europa e in Italia non hanno questo ottimismo perché non pensano di essere in grado di poterlo fare. Però vorrei andare da Lichfield per chiedere il suo punto di vista soprattutto sulle app che controlleranno, che già stanno controllando la nostra mobilità. Questo dualismo tra il controllo e le nostre libertà, quelle che ci siamo conquistati in tanto tempo: come finirà? Chi vincerà? Dobbiamo rassegnarci, possiamo trovare un compromesso oppure bisogna andare o in un verso o nell’altro?
Gideon Lichfield: Vorrei iniziare dicendo che Alec ha descritto benissimo questa distinzione tra i modelli possibili. Nel modello cinese il governo ha il controllo di tutti i dati, mentre in quello americano sono i privati ad avere questo potere. E nel modello europeo, che è iniziato a emergere nel GDPR degli ultimi anni, c’è un tentativo di dare agli individui un controllo maggiore dei dati. Ci sono molte controversie al riguardo ma personalmente non sono sicuro che questo modello funzioni del tutto perché non penso che gli individui abbiano realmente la capacità di monitorare e controllare l’uso dei propri dati e di farlo adeguatamente. Quindi credo che debba nascere un nuovo modello europeo, ma come ho detto questo è un altro discorso. Quanto alla sua domanda, se dobbiamo sottoporci o meno al controllo, o avere più libertà, credo sia una scelta ingannevole. La direzione che sta prendendo questa situazione al momento, a seguito della pandemia di Covid, è quella di usare le app per fare tracciamento o contact tracing in modi diversi: vale a dire per scoprire se gli utenti sono entrati a contatto con soggetti contagiati dal coronavirus. Questo è uno strumento chiave, che viene usato per tenere la pandemia sotto controllo. Si identificano i soggetti esposti e poi vengono messi in isolamento o in quarantena, cosicché non possano diffondere il virus ad altre persone. In vari Paesi, come la Corea del Sud, Singapore, Cina e Taiwan, si pratica il contact tracing per mezzo delle app, ma i principi su cui si basano queste app sono i più svariati. In alcuni casi i dati sono centralizzati, il governo può controllare chiunque: se qualcuno si sposta, se è stato infettato o esposto al virus. In altri Paesi, i dati sono più centralizzati e in questi casi le app si limitano a informare l’utente se si è entrati in contatto con una persona contagiata, ma preservano l’identità di quest’ultima, mantenendo l’anonimato in quanto i dati non vengono centralizzati e condivisi. Ci sono molte altre proposte oltre a quelle già esistenti per tracciare i contagi rispettando la privacy. Quindi ritengo che ci sia l’opportunità di sviluppare un nuovo paradigma per usare i dati personali per il bene pubblico e dei singoli individui, ma sempre nel rispetto della privacy. Finora non si è ancora trovato un modello simile, e questa pandemia offre l’occasione per crearlo. La questione è se si presenteranno le condizioni adatte perché possa nascere. Come ho detto, ci sono molte persone che stanno sviluppando diverse app, ma quali di queste verranno adottate dipenderà dalle decisioni dei governi e da quanto vogliono sforzarsi per proteggere i dati degli individui. Ciò che abbiamo appena visto negli Stati Uniti è che una grande società di nome Palantir - che collabora molto con la Cia e con altre agenzie governative - non sta fornendo molti dei dati sull’amministrazione di Trump e viene usata per prendere le decisioni riguardo alla pandemia. Tutto ciò non è a favore del rispetto della privacy, perché si tratta di una società che sostanzialmente guadagna aiutando le agenzie governative a raccogliere grandi quantità di dati e centralizzarli. Possono esserci altri approcci per proteggere la privacy delle persone, ma diventa una scelta politica se favorire un approccio piuttosto che un altro e credo che come ha detto Alec, almeno in Europa, c’è il potenziale per creare un sistema normativo in cui i dati vengono usati preservando la privacy degli individui e per essere d’esempio al resto del mondo.
Giuseppe De Bellis: Ratti, secondo lei dalla crisi del coronavirus i tech giants usciranno rafforzati o indeboliti o resteranno quello che sono?
Carlo Ratti: Ma questo non lo saprei dire. Mi sembrava molto interessante la discussione prima su quello che potrebbe essere un modello europeo anche legato ai dati e di conseguenza i tech giants. Allora questo modello europeo che è chiaramente legato al GDPR, GDPR che già è stato preso come modello ad esempio dalla California e in altre parti del mondo, penso che potrebbe essere l’inizio di un modo diverso di pensare al nostro rapporto con i dati. E questo nostro rapporto con i dati è quello che è dietro a tutti i tech giants oggi. Quello che stiamo vedendo, ecco diciamo l’effetto della crisi, è di diversi tipi. In alcuni casi, come Amazon: Amazon è un po’ quasi diventata la Croce Rossa qua negli Stati Uniti perché porta consegne a domicilio un po’ in tutto il Paese. Per altri, stanno invece anche loro soffrendo un po’ per la crisi. Quindi direi che non c’è una direzione univoca. Ma quello che potrebbe davvero cambiare sarebbe se con questa riflessione, che per la prima volta direi sui dati è una riflessione aperta - molto spesso noi accettiamo di dare i nostri dati a una qualche società tecnologica senza pensarci, scrivendo soltanto accetto, cioè cliccando accetto nei termini e nelle condizioni di utilizzazione - ecco se questa volta, proprio partendo dalla crisi e in modo molto più trasparente, riflettiamo sui dati, sulla trasparenza dei dati e su come usarli in questo caso per battere l’epidemia ma dopo come utilizzarli in modo comune, ecco magari ripartendo proprio dal GDPR, questo potrebbe essere l’inizio di un modello europeo - che si diceva prima - e anche di nuove aziende che nascano e che competano con quelle che stanno vincendo oggi, con i tech giants, di cui lei diceva, che stanno vincendo oggi.
Giuseppe De Bellis: Adesso mi sposterei invece più sul fronte economico che abbiamo toccato in tante risposte, però vorrei andare un po’ più in profondità. Andrei da Petriglieri per chiedergli: sappiamo che molti governi stanno reagendo subito, come prima risposta alla crisi, dando liquidità ai cittadini, cioè aiutandoli anche nelle cose più elementari, dando degli assegni mensili con cui sbarcare il lunario per qualche mese. Non c’è il rischio che si torni a un’economia di sussistenza e che quindi si torni indietro rispetto anche ai passi avanti che abbiamo fatto rispetto all’autonomia del genere umano di creare valore?
Gianpiero Petriglieri: Guardi, non credo francamente. Credo che siamo veramente lontani da un’economia di sussistenza. Ci sono in questo momento degli interventi che servono a fare due cose, che hanno una funzione pratica: di riconoscere il fatto che ci sono milioni di persone in severe difficoltà e che hanno anche un valore importante simbolico del dire ‘ci sono ancora delle istituzioni in grado di contenere le nostre difficoltà’. E in questo senso io sono in profondo disaccordo sul fatto che il coronavirus e il cambiamento globale sono diversi: sono uguali. Sono uguali, il coronavirus è il cambiamento climatico globale in fast forward. Sono entrambi crisi globali, sono entrambi intensificati dalla nostra inerzia e dalla demagogia, e sono entrambe crisi da cui se ne esce tutti insieme. Non soltanto con i sentimenti, ma anche con le misure, le politiche pratiche. O se ne esce più umani, o non se ne esce per niente.
Giuseppe De Bellis: Grazie, grazie. Ratti, l’emergenza - e anche in questo caso vorrei tornare un po’ indietro, soprattutto al momento in cui sembrava essere confinata, o tutti speravamo che fosse confinata alla Cina - comunque ha dimostrato quanto il mondo, e anche gran parte dell’Occidente, dipende dalla Cina. Dipende dalle produzioni cinesi, ha delegato tantissimo delle sue attività alla produzione in Cina. Mi chiedo: alla fine di questa emergenza, torneremo a essere meno Cinacentrici?
Carlo Ratti: Sì, ho vissuto proprio tra l’altro da vicino l’inizio. Ero proprio in Cina alla fine dell’anno passato, l’inizio di quest’anno ero in Cina come curatore della Biennale di Shenzen: la Biennale di Shenzen è un po’ come la Biennale di Venezia, ecco la Biennale di Shenzen è la più grande Biennale al mondo che porta diverse milioni di persone nella città di Shenzen a discutere di architettura, di città. Questo era proprio nel momento in cui stava iniziando l’epidemia - quella che oggi è una pandemia - che stava iniziando in Cina. E quindi ho vissuto proprio i primi giorni, poi come si è spostata in giro per il mondo. E credo quindi che ci sia effettivamente una lezione importante. Una delle cose che abbiamo fatto alla Biennale di Shenzen, tra l’altro in collaborazione con il Politecnico di Torino e tutti gli altri partner di quest’anno, è stato proprio quello di fare per la prima volta, di stampare tutto in tredimensioni locale: di fabbricare tutto localmente. Quindi per la prima volta non abbiamo trasportato grandi modelli, grandi progetti da tutto il mondo a Shenzen, ma li abbiamo prodotti localmente in Cina. E penso che questo possa darci anche un’idea di come potrebbe essere il mondo della produzione di domani. Una visione tra l’altro di cui parliamo spesso con molti colleghi qui al Mita a Boston. Una visione per cui sempre di più potremo sì trasferire l’intelligenza, trasferire i file, trasferire i dati, ma poi produrre in modo locale. Beh, un domani ancora abbastanza distante, tutto potrebbe essere prodotto con stampe tridimensionali quasi appunto sotto casa, potremmo scaricare i progetti, i file dell’iphone, e farcelo stampare vicino a casa. Oggi siamo ancora lontani ma penso che comunque - come tra l’altro abbiamo toccato con mano in questo esperimento alla Biennale di Shenzen proprio pochi mesi fa - è già possibile fare molto. E quindi immagino che nei prossimi mesi, proprio vedendo come le catene di distribuzione si stanno fermando a causa del lockdown, andremo sempre più avanti verso questa direzione: la robotica, le stampe tridimensionali, il mondo digitale che ci permette di fare quello che in inglese qua in America si chiama ‘reshoring’, cioè riportare anche in Italia, di riportare in Europa molte delle produzioni che negli ultimi anni erano andate via.
Giuseppe De Bellis: Grazie. Vado da Lichfield per l’evoluzione di questa domanda. Forse in realtà è un passo indietro rispetto alla domanda di Ratti. La globalizzazione ha effetti positivi ed effetti negativi. In questo caso ha dimostrato quanto, in un’epoca globalizzata, se si ferma un Paese, si rischia di far fermare tutto il mondo. Poi, in realtà, si è fermato tutto il mondo perché l’epidemia è diventata pandemia e quindi ha colpito tutti. Però la globalizzazione ha anche dei lati positivi: fa viaggiare le idee, fa viaggiare le merci, fa viaggiare qualunque cosa. Mi chiedo: visto che è stata causa del problema economico, la globalizzazione può essere anche la soluzione oppure no? Per cui, tornando alla domanda che ho fatto a Ratti, andremo in un’era che sarà più chiusa anche dal punto di vista economico e non soltanto sociopolitico, oppure resteremo in un’era aperta?
Gideon Lichfield: Ritengo che siamo indirizzati verso un’epoca di maggiore chiusura. Penso che fosse già quello che stava succedendo prima del coronavirus, soprattutto da quando è cominciata questa guerra del commercio e le tensioni fra gli Stati Uniti e la Cina, che ovviamente sono molto importanti nella cartina geopolitica del mondo. Sono convinto che se continueremo a vedere lo stesso tipo di atteggiamento che riscontriamo adesso negli Stati Uniti, ad esempio, allora vi saranno tensioni e competizioni sempre crescenti fra gli Stati nella lotta contro il Covid-19. E proprio come conseguenza di questo tutte le tendenze anti-globalizzazione che abbiamo osservato negli ultimi due anni, continueranno a esistere. Il mio sospetto è che, come ha detto Carlo Ratti, assisteremo al ritorno di alcune produzioni o ‘reshoring’. Molti Paesi o industrie si renderanno finalmente conto di quanto siano diventati dipendenti dalla Cina per i loro processi di produzione. La Cina, d’altro canto, avendo ancora un importante vantaggio economico per quanto riguarda la produzione, ovviamente continuerà a fare affidamento su quello, ma potrebbero esserci dei tentativi da parte delle altre potenze per fare in modo che la materia prima o la manifattura cali la dipendenza da una singola fonte. In generale penso che la tendenza sia contraria alla globalizzazione in questo momento, e questo ovviamente avrà delle conseguenze per quanto riguarda la lotta ai cambiamenti climatici che richiede una dose importante di cooperazione globale.
Giuseppe De Bellis: Ross, si torna quindi anche a livello politico a sentire diciamo a sentire il sapore, l’odore delle nazionalizzazioni - e quindi anche di un’economia controllata dai governi non soltanto nei Paesi in cui questo già accade - oppure le democrazie rimarranno comunque democrazie liberali anche in tema economico?
Alec Ross: Ritengo che il principale dualismo economico e politico del XX secolo fosse la sinistra contro la destra. Il principale dualismo politico tra il 2020 al 2030 sembra che diventerà aperto contro chiuso, e non solo in termini di libera circolazione dei capitali e libera circolazione delle persone, ma anche come si manifesta all’interno della nostra cultura, sui nostri standard culturali impostati dall’autorità centrale e dagli stessi cittadini. E quello che si osserva in questo momento è questo difficile attrito che si verifica fra nazionalizzazione e ri-nazionalizzazione opposti alla globalizzazione. Sono convinto che quello che ci aspetta a breve termine - nello specifico intendo i prossimi cinque anni - è una spinta contraria alla globalizzazione. Ma penso che le tendenze globali a lungo termine continueranno a essere decisamente a favore di quest’ultima. E la statalizzazione delle industrie non sarà a parer mio una tappa della ri-nazionalizzazione delle politiche economiche. C’è stata una grossa opportunità per farlo negli Stati Uniti - il nostro Paese viene da una manovra da 2,2 trilioni di dollari chiamata ‘Economic recovery Act’ - e invece di acquisire capitali propri, invece di acquisire la proprietà, le grandi compagnie ricevevano fondi pubblici, come le compagnie aeree, gli alberghi. Il governo diceva ‘no no, potete tenere i soldi senza alcuna condizione’. Non sono mai stato d’accordo con questa linea, pensavo che una tassazione ridotta avrebbe dovuto rimettere i capitali nelle mani di compagnie enormi come la United Airlines, e questo avrebbe dovuto permettere di ottenere parte del patrimonio, ma credo che sia molto significativo che il governo abbia detto di no. Per questo mi sento di escludere che vedremo una ri-nazionalizzazione delle industrie. Un’ultima considerazione al riguardo. La gente parla di recupero come se fosse una cosa sola. Non credo che vedremo un rilancio uniforme dell’economia. Ritengo che avrà tre forme differenti. Per alcune aziende il recupero avrà una forma simile a una L, per altre avrà una forma di una U, per altre ancora sarà a forma di V. La forma di rilancio a V la possiamo già osservare nelle aziende pubbliche. Abbiamo già visto il mercato azionario statunitense recuperare con deciso vigore. Questo perché gli stati patrimoniali delle più grandi aziende erano solidi. Per altre aziende vedremo curve di rilancio simili a una U, vale a dire che il resto del 2020 e il primo quarto dell’anno prossimo saranno in perdita per poi salire. Quelle che mi preoccupano di più sono i rilanci a forma di L, e questa sarà la categoria in cui ricadranno la maggior parte delle piccole imprese. Queste non possono annullare gli investimenti e non hanno alcun modo di superare indenni alcune delle conseguenze a breve termine, come la recessione e la depressione economica attuale. E queste non sono le aziende che vedremo mai ri-nazionalizzate. Quindi la situazione spinosa di cui nessuno si sta curando più di tanto e che subirà le maggiori ripercussioni alla fine è quella delle piccole-medie imprese.
Giuseppe De Bellis: Berman, parlando di economia ma anche di cose che sono molto vicine a noi, le chiedo: tutte le piccole attività - a New York ce ne sono tantissime, a Brooklin soprattutto ce ne sono molte - piccole attività di quartiere, che sono in questo momento in totale lockdown e che saranno in difficoltà, lei le vede prosperare in futuro o vede una tragedia per loro?
Paul Berman: È una situazione tragica per loro. Nei quartieri vicino a casa mia non mi aspetto di vedere nulla che possa assomigliare anche vagamente a una risalita a V. Al massimo potrebbero avere un andamento a W, con alti e bassi, oppure a Z, con il caos totale in cui sarebbe totalmente impossibile prevedere quale sarà il risultato finale. L’unica cosa certa è che molte attività che provvedono a migliorare la bellezza e la qualità della vita di città, stanno venendo distrutte e non torneranno velocemente alle condizioni precedenti, o forse non lo faranno mai. I ristoranti, i bar, tutti i locali di questo genere, le attività che costituiscono la civilizzazione della vita urbana, sembrano tutte vertere verso una situazione disastrosa in questo momento, ed è molto difficile immaginare in che modo si possa recuperare. Dobbiamo prima conoscere quale sarà il destino del virus. Non sappiamo neanche questo. Quindi è tutto un enorme mistero.
Giuseppe De Bellis: Lichfield, il settore dei trasporti, dei trasporti aerei ma anche dei trasporti su rotaia e su ruota, è stato un settore che ha avuto un’espansione enorme negli ultimi anni. Sappiamo anche quanta ricerca scientifica, quanta ricerca tecnologica c’è per portarci nel futuro di questo settore. Come ci muoveremo però nei prossimi anni, visto che in questo momento siamo tutti fermi?
Gideon Lichfield: Credo che questa possa essere una brutta notizia per i nostri tentativi di rivedere il sistema dei trasporti, almeno negli Stati Uniti. Perché ovviamente la gente adesso ha paura di essere contagiata dalle altre persone, quindi è più probabile che usino le proprie auto, piuttosto che i mezzi pubblici. Immagino che l’industria delle compagnie aeree ci metterà molto per riprendersi e sempre più persone potrebbero iniziare a considerare i viaggi di lavoro come non necessari. E ovviamente spero che questo sia il caso, anche se sarebbe senz’altro un male per questo settore. Per quanto riguarda gli altri mezzi di trasporto, se abbiamo ancora paura di contrarre il virus vuol dire che i treni gli autobus e i trasporti locali nello specifico dovranno rivedere il modo in cui offrono questo servizio. Perché nelle grandi metropoli come New York, e in tutte le altre grandi città, ci sono sempre affollamenti sui mezzi pubblici, ed è semplicemente impossibile pensare che la gente riprenderà ad accalcarsi nei vagoni come faceva prima. Questo può comportare che invece di avere più mezzi di trasporto ci sarà più lavoro da remoto, orari più flessibili, lo smart working diventerà la norma. Naturalmente mi sono reso conto che molti lavori fatti da casa hanno la stessa efficienza che se fatti dall’ufficio, e probabilmente i datori di lavoro accetteranno più facilmente che i propri dipendenti lavorino lontano dall’ufficio. Ed è molto probabile che i primi mesi dopo la riapertura, quando l’economia ripartirà per via della pandemia, non sarà possibile per molti impiegati tornare subito in ufficio, e i datori di lavoro dovranno stabilire delle regole per cui solo il 25% dei dipendenti, o metà, potranno entrare insieme in ufficio. La direzione che prenderemo, secondo me, è che ci saranno meno mezzi pubblici in generale e più mezzi privati. Spero che questo voglia dire che aumenteranno le biciclette, ma al momento abbiamo visto che in alcune zone c’è ancora più traffico di prima, perché la gente usa di più le auto.
Giuseppe De Bellis: Grazie. Ratti, lei in un libro recente parlava degli spostamenti nelle città perché descriveva le città di domani. Allora mi chiedo, ovviamente non poteva prevedere, nessuno poteva prevedere che i mezzi di trasporto, i mezzi pubblici delle città del domani avrebbero avuto una capienza massima del 50%, perché questo è quello di cui parliamo per il futuro. Ma il cambio del sistema dei trasporti come inciderà nel disegno dell’urbanistica delle città? Se lo farà.
Carlo Ratti: Questo è un punto molto importante anche perché, come è stato appena detto, una delle grandi difficoltà per le città sarà appunto di capire come mettere insieme queste due tensioni contrastanti. Da un lato, appunto, sarà più difficile utilizzare i mezzi pubblici e, comunque, se li utilizzeremo avremo una capacità molto ridotta. Dall'altro noi sappiamo che le nostre città non possono reggere una situazione in cui ciascuno, ad esempio, domani possa pensare di andare a lavoro in automobile. Semplicemente se noi pensiamo a Milano, pensiamo a Parigi, New York o Londra, ecco, se la metropolitana non dovesse funzionare, la città collasserebbe. Se ciascuno fosse in macchina, la città collasserebbe. E quindi come cercare di reagire? Beh penso che alcune delle idee che sono state dette sono fondamentali. La prima, il problema della nostra infrastruttura, di solito non è un problema di saturazione nel tempo, è quello dei picchi, così come quello del virus (del coronavirus) il problema del picco, quindi della capacità degli ospedali nel picco. Allo stesso modo un problema simile per le nostre strade, e allora se riusciamo a lavorare in modo più flessibile, magari distribuendo gli spostamenti nell'arco della giornata, riusciamo a recuperare molta capacità sulle nostre strade. Un'altra soluzione interessante che viene dalla tecnologia, che abbiamo visto un po' in tutto il mondo negli ultimi anni, è quella della micromobilità. Micromobilità sono quelle bici (elettriche o no), sono i monopattini (in America vengono chiamati scooter), insomma che si prendono e si lasciano un po' dove uno vuole. La micromobilità potrebbe essere molto interessante, perché da un lato ci permette social distancing, di non essere troppo vicini gli uni agli altri, ma dall'altro usa in modo molto più leggero rispetto all'automobile l'infrastruttura che abbiamo. Ecco, queste potrebbero essere alcune delle soluzioni mentre gestiamo la fase intermedia, cioè la fase dei prossimi mesi fino a quando verrà trovato un vaccino. Se poi guardiamo al lungo periodo, penso di nuovo che questi grandi cambiamenti della crisi, di questa settimana, ci aiutino ad accelerare quello che già stava succedendo. Stava succedendo che la mobilità diventasse da qualcosa di legato ad un oggetto come nel 900 ad una mobilità on demand, per cui passiamo ad un servizio a cui possiamo accedere con un app e con molte modalità diverse. Quindi se pensiamo al dopo, vedrei una modalità sempre più di questo tipo e che possa rispondere in maniera dinamica anche alle condizioni di uno shock come quello che abbiamo vissuto. Negli ultimi mesi abbiamo lavorato con una società consorella di Google, si chiama Sidewalks Labs, su un grande progetto che hanno a Toronto e abbiamo immaginato anche un'infrastruttura stradale che possa diventare on demand, che possa rispondere. Ecco se così fosse possibile anche la crisi sarebbe più facile da gestire, trasformando la stessa infrastruttura in uno spazio per pedoni oppure per biciclette, per micromobilità oppure per automobili a seconda delle condizioni che ci vengono imposte dall'esterno.
Giuseppe De Bellis: Grazie. Petriglieri, ho letto un suo articolo di qualche giorno fa, sul panic working, cioè sulla tendenza a sovraccaricarci di lavoro per evitare di pensare al peggio. Questa paura rimarrà? Cioè questa nostra voglia di sovraccaricarci, cioè di affrontare il lavoro domestico, cioè il lavoro nelle nostre mura, lo smart working, per, come dire, contrastare la paura di quello che c'è fuori, rimarrà anche nell'era della convivenza con il virus oppure la supereremo pian piano?
Gianpiero Petriglieri: No, non penso che la supereremo per molto. Rimarrà sempre di fondo, magari troveremo delle maniere di gestirla meglio o di gestirla peggio. Diciamo, come premessa, prepariamoci ad un lavoro molto più remoto, sia da un punto di vista tecnologico, sia nel senso psicologico, più virtuale e meno sicuro. E quando il lavoro è sia virtuale sia ansiogeno, che provoca ansia, è normale che tendiamo a reagire all'ansia con una compensazione, con cercare di fare di più per raggiungere il collega che non vedo nell'ufficio di fronte ma con cui devo parlare su zoom, per dimostrare al cliente che faccio qualcosa di valore per non perdere il mio contratto. Tra parentesi: questa era un'ansia che era già ben conosciuta a chi lavorava in situazioni di precarietà e soltanto che adesso l'abbiamo conosciuta in poche settimane, molti di noi l'hanno scoperta. Come se ci fossimo…non l'abbiamo voluta vedere, ma chi lavorava nella precarietà il panic working lo conosce benissimo: il lavoro come questione di vita o di morte. Adesso la riconosciamo tutti, prepariamoci ad imparare a gestirla, saremo tutti professionisti nomadi, verremo fuori da questa crisi con un'accelerazione di un trend che era già cominciato: molto attaccati al nostro lavoro, non necessariamente attaccati per la vita all'organizzazione e alle istituzioni. E alcuni ne soffriranno, per alcuni il professionismo nomade è sicuramente una minaccia, e per alcuni un'opportunità. Una società che può trasformare il professionismo nomade da una minaccia a un'opportunità, è una società che si potrà permettere progresso.
Giuseppe De Bellis: Ross, che cosa si perde, che cosa si guadagna con lo smart working? ormai siamo, in questo momento, tutti in modalità smart, siete tutti a casa, quindi state facendo anche voi lo smart working. Che cosa perdiamo e che cosa invece guadagniamo?
Alec Ross: La prima cosa che abbiamo guadagnato è sicuramente il tempo, io ho tre figli e mi sembra che, da quando siamo stati messi in quarantena insieme, faccio lo stesso lavoro che facevo prima, ma mi avanza comunque del tempo da passare con loro perché non devo spostarmi per raggiungere l'ufficio, non devo prendere l'aereo per andare alle riunioni con il consiglio, perché faccio tutto tramite zoom. Quindi una cosa che abbiamo guadagnato è il tempo e una cosa che spero riusciremo ad apprezzare di più dopo questa esperienza è sempre il tempo. Ho la sensazione che non vorremo più sprecarlo come facevamo prima. Noi siamo animali sociali e sono estremamente convinto che ci sia una certa ricchezza che viene dalla collaborazione quando è fatta di persone. Quindi per quanto mi riguarda, penso di essere creativo anche quando lavoro da solo, ma la collaborazione e la cooperazione che ho, per esempio, con i miei soci dei fondi di capitale di rischio, vengono in parte limitate dallo schermo. Ci sono cose che si possono fare anche in video conferenza, ma altre credo diventino un po' più complicate. E, come ultimo punto, direi che secondo me i danni psicologici saranno notevoli. Molti di noi, in parte si sono formati psicologicamente in rapporto alle amicizie al lavoro e a quelle fuori dal lavoro. La misura in cui questi contatti vengono limitati in questo periodo, credo abbia degli effetti psicologici interessanti a lungo andare. Per quelli di noi che fanno parte di una società o che investono in una compagnia sarà una cosa che ci riguarderà per molto tempo.
Giuseppe De Bellis: Lichfield, sapevamo già che sarebbero cambiati tantissimi posti di lavoro per effetto dell'arrivo dell'automazione in maniera imperante nelle nostre vite. Ora arriva Covid-19 e le conseguenze di Covid-19. Come cambierà? Cioè: la connessione tra le conseguenze del Covid-19 e l'automazione e quindi l'arrivo delle macchine e dell'intelligenza artificiale come cambierà il mercato del lavoro e i lavori del futuro?
Gideon Lichfield: Secondo me vedremo sicuramente aumentare l'interesse nei confronti di tutti quei lavori che possono essere automatizzati o eseguiti dai robot. Chiaramente ci si sta rendendo conto che alcune mansioni sono essenziali e non possono essere sostituite dalle macchine. In particolar modo quelle che fanno parte del settore medico e anche dei lavori basilari come la vendita al dettaglio in cui serve una persona fisica. Ma credo che nel settore commerciale, dato che ora come ora è pericoloso anche solo andare al supermercato a fare la spesa, vedremo un incremento degli acquisti online, la vendita al dettagli si sposterà sul web, cosi non ci sarà più bisogno di andare fisicamente in un negozio. Forse verranno ideati dei modi elettronici per prenotare l'orario di accesso ai negozi in modo da evitare affollamenti all'interno, un po' come succede prenotando un tavolo al ristorante. Alcuni di questi cambiamenti avranno inevitabilmente l'effetto di ridurre di molto il numero dei posti di lavoro necessari, ma penso che guardando il quadro generale, quello che l'economia farà al mondo del lavoro non sarà un cambiamento radicale, perché queste trasformazioni erano già in atto anche prima. In altre parole: il passaggio verso l'automazione di molte professioni era già iniziato e questa situazione l'ha solamente accelerato.
Giuseppe De Bellis: L'ultimissima domanda invece è una definizione flash che chiedo a ciascuno. Sappiamo che si parlerà, stiamo già parlando, del new normal. Che cosa significa per ciascuno di voi new normal in una frase, o in una parola. Berman.
Paul Berman: Per me la nuova normalità consiste nel mistero, nell'incertezza, nell'ansia e nella paura. Questa sarà la nuova normalità.
Giuseppe De Bellis: Ross
Alec Ross: New normal a mio parere può essere definito alla perfezione da questa nuova consapevolezza che possiamo venire colpiti da grave minacce esistenziali in qualsiasi momento. Ad esempio credo che uno degli effetti del Covid-19 sarà che prenderemo più seriamente problemi come il riscaldamento globale, per questo sono convinto che ci renderà una società molto più seria.
Giuseppe De Bellis: Grazie, Lichfield?
Gideon Lichfield: Penso che il new normal, sarà uno stato di consapevolezza amplificata, in cui faremo maggior affidamento su chi ci circonda. Che sia un familiare, un amico in particolare o un collega di lavoro, saremo costretti a operare una scelta cercando di capire chi è più importante per noi e di chi possiamo fidarci o meno in una particolare situazione. In alcuni casi questo è un fenomeno che produce delle persone con legami alla comunità molto più forti del normale, mentre in altri produce un sentimento di sfiducia e sospetto e isolazionismo
Giuseppe De Bellis: Grazie. Petriglieri prego.
Gianpiero Petriglieri: Il new normal non esiste. Il new normal è adesso, il new normal è, se vogliamo essere ottimisti, il riscoprire l'umanità, riscoprire le relazioni oltre la paura di restare isolati.
Giuseppe De Bellis: Grazie. Ratti.
Carlo Ratti: Sono in disaccordo con tutti gli altri. Il new normal sarà un salto nel futuro.
Giuseppe De Bellis: Grazie mille. Grazie, grazie di essere stati con noi. Grazie a Paul Berman, ad Alec Ross, a Gideon Lichfield, grazie a Gianpiero Petriglieri, a Carlo Ratti. Grazie.