In un libro Mondadori dedicato all'istruzione secondaria, Katia Provantini indaga anche su violenza e aggressività tra studenti, dimostrando come i ragazzi delle medie e superiori siano più restii delle loro compagne a parlare. L'ESTRATTO
di Katia Provantini
In una ricerca svolta anni fa nei territori della comunità montana della Valcuvia, in provincia di Varese, abbiamo studiato i possibili significati affettivi dei comportamenti provocatori, con l’obiettivo di valutare come e se fosse possibile progettare interventi di prevenzione. Di conseguenza eravamo interessati non solo a conoscere dimensioni e caratteristiche del fenomeno, ma anche a delineare i fattori soggettivi, affettivi e relazionali che potevano contribuire allo sviluppo di comportamenti provocatori.
I dati della nostra ricerca hanno dimostrato che sono soprattutto i bambini delle elementari e le femmine (anche della scuola media) ad avvertire gli adulti di un episodio di bullismo, mentre i ragazzi più grandi tendono a considerare negativamente l’ipotesi di denuncia poiché si rischia di essere ritenuti piccoli e deboli, o «femminucce», qualifica che riunisce in sé entrambe le caratteristiche negative.
Chiedere aiuto per il danno subìto significa anche sottrarsi alla legge del gruppo cui occorre sottostare se si vuole farne parte e che tende a considerare le prevaricazioni normali dinamiche della convivenza quotidiana.
Se la logica condivisa dal gruppo è quella del più forte che, essendo tale, può comandare, implicitamente si afferma che sta alla vittima dimostrare la propria forza, senza ricorrere ad «aiuti» esterni. Se non si possiede la forza di contrapporsi al bullo, sarà logico sottometterglisi.
L’immagine prevalente che i coetanei hanno dei prepotenti è, del resto, quella di ragazzi e ragazze che riescono a ottenere ciò che vogliono e, soprattutto i maschi, ne sottolineano in particolare gli aspetti connessi alla rabbia, alla forza e alla potenza. Le femmine sembrano mantenere una maggiore distanza dalle azioni dei prepotenti: denunciano di più, reagiscono con sentimenti negativi, ammettendo per esempio di star male se si ritrovano spettatrici di una prevaricazione, mentre i maschi dichiarano di «non provare nulla»; infine le ragazze tendono ad avere un’immagine più negativa del bullo e ne sottolineano i caratteri di tristezza, di solitudine e di debolezza. Ciò che riescono a cogliere maggiormente nel significato della prepotenza è il disvelamento della debolezza dei prepotenti, riuscendo a ipotizzare che la cattiveria vada interpretata come una reazione alla paura e alla mortificazione. Più precisamente, nelle risposte dei maschi (i questionari sono stati distribuiti a un campione rappresentativo della popolazione di studenti di quarta e quinta elementare e della scuola media inferiore dell’intera comunità montana) emerge la necessità di essere adeguati e all’altezza della situazione, di non sbagliare e non avere paura, di avere successo, essere ricchi, forti e autonomi. Le azioni del bullo rischiano di venir lette come segnali di forza, di capacità e potenza, qualifiche che i ragazzi di questa età valorizzano per statuto, in quanto percepite come funzionali al raggiungimento di un’identità maschile adulta. Tra le ragazze, le prepotenze assumono un profilo differente, maggiormente legato alle competenze relazionali e meno alla forza in sé.
Sono, per esempio, più frequenti episodi di aggressività verbale e psicologica o di estromissione dal gruppo. Osservando le dinamiche al femminile ci si può accorgere di come a volte all’interno della classe ci siano gruppi gerarchici ben distinti: quello delle «elette» o «vip» e quello delle «normali» o «popolari».
Alcuni abiti, come certe marche di jeans, possono essere indossati esclusivamente dai membri del primo gruppo, mentre le appartenenti al secondo possono farlo dopo averne ricevuta esplicita concessione. Oppure può accadere, durante una lezione, che un diario giri in modo ostentato solo tra alcune ragazze, mentre altre vengano escluse dal gioco: coloro che ricevono il diario leggono, scrivono qualcosa e lo passano a una compagna, creando un filo di comunicazione tra alcune ed escludendone esplicitamente altre. A volte tutti sanno che si sta preparando un’uscita o una festa e il gioco, finalizzato a rendere «trasparente» qualche compagna, prevede che l’esclusa assista, impotente e avvilita, al chiacchiericcio apparentemente spensierato delle altre.
L’esclusione si può giocare anche sul piano della maldicenza e così, nei confronti della compagna da escludere, iniziano a girare voci su presunti suoi comportamenti disdicevoli («ho sentito dire che...», «si dice che abbia fatto... ») che giustificano la decisione di non coinvolgerla nel cerchio delle amiche. In questi casi le ragazze sembrano allenarsi a costruire alleanze e a gestire rapporti, dapprima nell’ambito del ristretto cerchio delle «migliori amiche» e successivamente all’interno di una rete relazionale sempre più ampia e complessa. Per entrambi i gruppi, maschili e femminili, i gesti prevaricatori appaiono associati alla necessità di assomigliare a ragazzi e ragazze più grandi. Il bisogno di raggiungere il successo sociale, di mostrarsi liberi e autonomi (nella declinazione «faccio ciò che voglio») sembra costituire un filo conduttore che accomuna tutti, vittime e bulli, maschi e femmine. Da questo punto di vista, un fattore di rischio importante è rappresentato dalla precocità del bisogno di mostrarsi grandi e capaci, generando un’ansia dolorosa, in bambini non ancora sufficientemente maturi nelle competenze cognitive e affettive per poterla affrontare in modo adeguato.
Accade così che diventare grandi viene interpretato genericamente come non subire e non sottostare a regole; il grado di successo sociale si può misurare attraverso la capacità di gestire un gruppo, decidendo chi ne può far parte e chi no; il timore di rimanere indietro mentre gli altri evolvono si può risolvere costringendo un coetaneo in una condizione di debolezza così, mal che vada, ci sarà sempre qualcuno che sta peggio.
Per molti aspetti, l’ansia di crescere, se si considera l’importante diffusione del fenomeno delle prevaricazioni, da semplice fragilità soggettiva di un singolo individuo si trasforma in fenomeno sociale per una generazione di bambini ai quali troppo precocemente si chiede di assumere abiti adulti. Si tratta per molti ragazzini di accogliere una richiesta che ha le caratteristiche del compito impossibile e che può trovare una soluzione solo escogitando qualche espediente o qualche scorciatoia. L’aspetto su cui sarebbe importante riflettere non è tanto il presunto infantilismo delle nuove generazioni di adolescenti, cresciuti in ambiti eccessivamente protetti, schiacciati da aspettative onnipotenti dei genitori o indeboliti da investimenti narcisistici. Credo che molto di più giochi, in questo caso, l’angoscia profonda che può suscitare il confronto con un impedimento o un errore negli adulti, sia genitori sia insegnanti, più che nei bambini e nei ragazzi.
La crisi generata da un fallimento o, a volte, da una difficoltà inaspettata, assume le caratteristiche del disastro segretamente temuto e che disgraziatamente si avvera. Tuttavia, in questa prospettiva, si perde la possibilità di considerare l’errore, e il disagio più o meno grande che si sperimenta, come un aspetto intrinseco della capacità di apprendere, che non disvela alcun difetto e che addirittura può essere trasformato in un’opportunità per attivare delle risorse per crescere.
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Tratto da Katia Provantini, Scuola media, manuale per la sopravvivenza, Mondadori, pp- 156, euro 17
Katia Provantini, psicologa, vive e lavora tra Padova e Milano. Presidente della Cooperativa Minotauro, coordina le équipe Apprendimento e orientamento e dei Laboratori. Svolge attività di consultazione con adolescenti, genitori e coppie in crisi e attività di formazione e supervisione a docenti e psicologi. Coordina progetti di rete per la prevenzione del disagio e della dispersione scolastica in collaborazione con comuni ed enti locali. Ha scritto, con Anna Arcari, La scelta giusta. Orientarsi dopo la terza media (2009) e ha curato, con Elena Riva, Padri, madri, figli adolescenti (2012).
In una ricerca svolta anni fa nei territori della comunità montana della Valcuvia, in provincia di Varese, abbiamo studiato i possibili significati affettivi dei comportamenti provocatori, con l’obiettivo di valutare come e se fosse possibile progettare interventi di prevenzione. Di conseguenza eravamo interessati non solo a conoscere dimensioni e caratteristiche del fenomeno, ma anche a delineare i fattori soggettivi, affettivi e relazionali che potevano contribuire allo sviluppo di comportamenti provocatori.
I dati della nostra ricerca hanno dimostrato che sono soprattutto i bambini delle elementari e le femmine (anche della scuola media) ad avvertire gli adulti di un episodio di bullismo, mentre i ragazzi più grandi tendono a considerare negativamente l’ipotesi di denuncia poiché si rischia di essere ritenuti piccoli e deboli, o «femminucce», qualifica che riunisce in sé entrambe le caratteristiche negative.
Chiedere aiuto per il danno subìto significa anche sottrarsi alla legge del gruppo cui occorre sottostare se si vuole farne parte e che tende a considerare le prevaricazioni normali dinamiche della convivenza quotidiana.
Se la logica condivisa dal gruppo è quella del più forte che, essendo tale, può comandare, implicitamente si afferma che sta alla vittima dimostrare la propria forza, senza ricorrere ad «aiuti» esterni. Se non si possiede la forza di contrapporsi al bullo, sarà logico sottometterglisi.
L’immagine prevalente che i coetanei hanno dei prepotenti è, del resto, quella di ragazzi e ragazze che riescono a ottenere ciò che vogliono e, soprattutto i maschi, ne sottolineano in particolare gli aspetti connessi alla rabbia, alla forza e alla potenza. Le femmine sembrano mantenere una maggiore distanza dalle azioni dei prepotenti: denunciano di più, reagiscono con sentimenti negativi, ammettendo per esempio di star male se si ritrovano spettatrici di una prevaricazione, mentre i maschi dichiarano di «non provare nulla»; infine le ragazze tendono ad avere un’immagine più negativa del bullo e ne sottolineano i caratteri di tristezza, di solitudine e di debolezza. Ciò che riescono a cogliere maggiormente nel significato della prepotenza è il disvelamento della debolezza dei prepotenti, riuscendo a ipotizzare che la cattiveria vada interpretata come una reazione alla paura e alla mortificazione. Più precisamente, nelle risposte dei maschi (i questionari sono stati distribuiti a un campione rappresentativo della popolazione di studenti di quarta e quinta elementare e della scuola media inferiore dell’intera comunità montana) emerge la necessità di essere adeguati e all’altezza della situazione, di non sbagliare e non avere paura, di avere successo, essere ricchi, forti e autonomi. Le azioni del bullo rischiano di venir lette come segnali di forza, di capacità e potenza, qualifiche che i ragazzi di questa età valorizzano per statuto, in quanto percepite come funzionali al raggiungimento di un’identità maschile adulta. Tra le ragazze, le prepotenze assumono un profilo differente, maggiormente legato alle competenze relazionali e meno alla forza in sé.
Sono, per esempio, più frequenti episodi di aggressività verbale e psicologica o di estromissione dal gruppo. Osservando le dinamiche al femminile ci si può accorgere di come a volte all’interno della classe ci siano gruppi gerarchici ben distinti: quello delle «elette» o «vip» e quello delle «normali» o «popolari».
Alcuni abiti, come certe marche di jeans, possono essere indossati esclusivamente dai membri del primo gruppo, mentre le appartenenti al secondo possono farlo dopo averne ricevuta esplicita concessione. Oppure può accadere, durante una lezione, che un diario giri in modo ostentato solo tra alcune ragazze, mentre altre vengano escluse dal gioco: coloro che ricevono il diario leggono, scrivono qualcosa e lo passano a una compagna, creando un filo di comunicazione tra alcune ed escludendone esplicitamente altre. A volte tutti sanno che si sta preparando un’uscita o una festa e il gioco, finalizzato a rendere «trasparente» qualche compagna, prevede che l’esclusa assista, impotente e avvilita, al chiacchiericcio apparentemente spensierato delle altre.
L’esclusione si può giocare anche sul piano della maldicenza e così, nei confronti della compagna da escludere, iniziano a girare voci su presunti suoi comportamenti disdicevoli («ho sentito dire che...», «si dice che abbia fatto... ») che giustificano la decisione di non coinvolgerla nel cerchio delle amiche. In questi casi le ragazze sembrano allenarsi a costruire alleanze e a gestire rapporti, dapprima nell’ambito del ristretto cerchio delle «migliori amiche» e successivamente all’interno di una rete relazionale sempre più ampia e complessa. Per entrambi i gruppi, maschili e femminili, i gesti prevaricatori appaiono associati alla necessità di assomigliare a ragazzi e ragazze più grandi. Il bisogno di raggiungere il successo sociale, di mostrarsi liberi e autonomi (nella declinazione «faccio ciò che voglio») sembra costituire un filo conduttore che accomuna tutti, vittime e bulli, maschi e femmine. Da questo punto di vista, un fattore di rischio importante è rappresentato dalla precocità del bisogno di mostrarsi grandi e capaci, generando un’ansia dolorosa, in bambini non ancora sufficientemente maturi nelle competenze cognitive e affettive per poterla affrontare in modo adeguato.
Accade così che diventare grandi viene interpretato genericamente come non subire e non sottostare a regole; il grado di successo sociale si può misurare attraverso la capacità di gestire un gruppo, decidendo chi ne può far parte e chi no; il timore di rimanere indietro mentre gli altri evolvono si può risolvere costringendo un coetaneo in una condizione di debolezza così, mal che vada, ci sarà sempre qualcuno che sta peggio.
Per molti aspetti, l’ansia di crescere, se si considera l’importante diffusione del fenomeno delle prevaricazioni, da semplice fragilità soggettiva di un singolo individuo si trasforma in fenomeno sociale per una generazione di bambini ai quali troppo precocemente si chiede di assumere abiti adulti. Si tratta per molti ragazzini di accogliere una richiesta che ha le caratteristiche del compito impossibile e che può trovare una soluzione solo escogitando qualche espediente o qualche scorciatoia. L’aspetto su cui sarebbe importante riflettere non è tanto il presunto infantilismo delle nuove generazioni di adolescenti, cresciuti in ambiti eccessivamente protetti, schiacciati da aspettative onnipotenti dei genitori o indeboliti da investimenti narcisistici. Credo che molto di più giochi, in questo caso, l’angoscia profonda che può suscitare il confronto con un impedimento o un errore negli adulti, sia genitori sia insegnanti, più che nei bambini e nei ragazzi.
La crisi generata da un fallimento o, a volte, da una difficoltà inaspettata, assume le caratteristiche del disastro segretamente temuto e che disgraziatamente si avvera. Tuttavia, in questa prospettiva, si perde la possibilità di considerare l’errore, e il disagio più o meno grande che si sperimenta, come un aspetto intrinseco della capacità di apprendere, che non disvela alcun difetto e che addirittura può essere trasformato in un’opportunità per attivare delle risorse per crescere.
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Tratto da Katia Provantini, Scuola media, manuale per la sopravvivenza, Mondadori, pp- 156, euro 17
Katia Provantini, psicologa, vive e lavora tra Padova e Milano. Presidente della Cooperativa Minotauro, coordina le équipe Apprendimento e orientamento e dei Laboratori. Svolge attività di consultazione con adolescenti, genitori e coppie in crisi e attività di formazione e supervisione a docenti e psicologi. Coordina progetti di rete per la prevenzione del disagio e della dispersione scolastica in collaborazione con comuni ed enti locali. Ha scritto, con Anna Arcari, La scelta giusta. Orientarsi dopo la terza media (2009) e ha curato, con Elena Riva, Padri, madri, figli adolescenti (2012).