Lavoro minorile, in Italia 260mila gli under-16 coinvolti

Cronaca
Un bambino lavora in un'officina (credits: Francesco Alesi per Save the Children)
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Un’indagine dell’Associazione Bruno Trentin e Save the Children rivela che 1 minore su 20 è costretto a lavorare e che solo la metà riceve un compenso. La maggior parte è impiegata in ambito domestico. Migliaia di giovanissimi sono a rischio sfruttamento

Troppo piccoli per votare, troppo giovani per guidare. Eppure considerati abbastanza grandi per lavorare. In Italia sono 260mila i minori di 16 anni che anziché studiare o giocare si ritrovano impiegati in qualche forma di lavoro. Uno su venti (il 5,2%) dei bambini italiani è coinvolto in una piaga ottocentesca che sta tornando alla ribalta negli ultimi anni, accelerata dalla crisi economica. Lo svela un’indagine realizzata dall’Associazione Bruno Trentin e da Save the Children, presentata a Roma l’11 giugno e a Milano il giorno seguente, in concomitanza con la “Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile”. Nel pianeta sono 215 milioni i bambini e gli adolescenti a cui viene negato il diritto fondamentale di avere un’infanzia. La metà di loro svolge lavori considerati pericolosi, che sfociano in schiavitù, prostituzione e attività illecite.

Lo sfruttamento in Italia – Nel nostro Paese sono 260 mila i lavoratori under 16, costretti dalle gravi condizioni familiari e dall’abbandono scolastico precoce. A lavorare si inizia presto: il 3% dei minori tra 11 e 13 anni è già impiegato. Ma il picco si raggiunge tra 14 e 15 anni, fascia in cui il 18,4% dei giovani italiani lavora. È l’età del passaggio dalla scuola media a quella superiore, nella quale l’Italia ha un tasso di dispersione scolastica tra i più alti d’Europa.
Il lavoro minorile non fa distinzioni di genere (il 46% di chi è coinvolto sono femmine). Le esperienze sono per lo più occasionali (il 40%) ma 1 su 4 lavora per periodi lunghi fino a un anno. Il 24% svolge un’attività che supera le 5 ore al giorno. L’impiego è spesso in ambito familiare: il 41% dei minori lavora nelle imprese dei propri parenti, mentre 1 su 3 si dedica a mansioni domestiche continuative per molte ore al giorno. E le prestazioni sono spesso non retribuite: tra i minori di 14-15 anni solo la metà dichiara di ricevere un compenso.

I lavori svoltiLe attività extradomestiche più diffuse tra i lavoratori minorenni sono quelle nel settore della ristorazione come barista, cameriere, pasticciere. Molto comuni anche i lavori da commesso, babysitter o le attività nel mondo agricolo e dell’allevamento. Nell’indagine, condotta su 2 mila interviste in 15 province italiane campione, è emerso che esiste anche una piccola percentuale di minori (1,5%) che lavora nei cantieri edili, con tutti i rischi che questo comporta. Sul totale dei casi analizzati, si stima che circa 30 mila giovani nella fascia 14-15 anni sono a rischio sfruttamento perché svolgono un’attività pericolosa per la salute, la sicurezza e l’integrità morale, con turni disumani e compensi nulli o bassissimi.

Proposte e soluzioni – La ricerca è la prima in Italia da 11 anni a questa parte. “L’indagine mette in luce come la crisi economica in atto renda ancora meno negoziabili le condizioni di lavoro dei minori”, spiega Raffaela Milano, Direttore Programmi Italia-Europa di Save the Children. “La maggioranza di loro non ha la consapevolezza di essere sfruttata e non sa nemmeno che cosa sia un contratto di lavoro”. La mappa del rischio vede in testa il Sud Italia ma il fenomeno interessa anche molte zone del Centro-Nord. 
Le richieste più urgenti dei promotori sono la nascita di un Piano Nazionale sul lavoro minorile che consenta di monitorare il fenomeno e la necessità di combattere con azioni mirate il lavoro illegale e lo sfruttamento. “La prima straordinaria riforma di cui ha bisogno il nostro Paese è quella dell’istruzione”, ha dichiarato in merito Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. “L’aumento della dispersione scolastica ha generato in tanti giovanissimi l’idea che studiare è inutile, lasciando che entrino così in un circuito di marginalità”.

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