Il rapporto dell'organizzazione analizza il “Piano Nazionale Scuola Digitale”, scova vari punti di forza ma giudica “insufficienti” i progressi: "A questo ritmo di crescita ci vorranno più di 15 anni per raggiungere la Gran Bretagna"
di Raffaele Mastrolonardo
Gli sforzi ci sono ma il ritardo accumulato dalla scuola digitale italiana è già parecchio. E rischia di diventare cronico se non si accelera. Il giudizio arriva da uno studio dell'Ocse che ha analizzato le strategie messe a punto dal nostro Paese per rendere più tecnologico il sistema dell'istruzione. Presentata a Roma il 6 marzo, l'indagine dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha esaminato il Piano Nazionale Scuola Digitale lanciato dal ministero dell'Istruzione nel 2007 delineando un quadro fatto di luci, ombre (queste ultime in maggioranza) e di progressi giudicati “insufficienti”. Come dire, rimandati a settembre.
Lenti alla meta - A preoccupare maggiormente gli osservatori dell'Ocse è la lentezza con cui l'innovazione si sta facendo strada in Italia. Nel 2012, per esempio, solo il 16 per cento delle classi italiane erano dotate di lavagne interattive (Lim, +11% rispetto al 2010). Nel Regno Unito erano l'80 per cento (53 % nei Paesi Bassi, 49% in Australia).
A questo ritmo di crescita – sottolinea poi la ricerca – “ci vorranno più di 15 anni” per raggiungere il livello britannico. Il rischio, insomma, è quello di restare sempre più lontani dai primi. Anche perché, lavagne a parte, è tutto il sistema dell'innovazione scolastica a soffrire. Nel 2011 solo il 30% degli studenti nostrani utilizzava tecnologie della comunicazione come strumento di apprendimento contro una media Ocse del 48.
Cinque euro all'anno per studente – Uscire da questa situazione non appare facile. Anche perché i mezzi per farlo scarseggiano. I ritardi, secondo i ricercatori, sono infatti figli di risorse a disposizione giudicate “modestissime”. I 30 milioni di euro stanziati per il Piano vogliono dire meno dello 0,1 per cento della spesa pubblica per l'istruzione e meno di 5 euro per studente all'anno. Un'inezia. Per l'Ocse, quindi, “un aumento significativo delle risorse attraverso finanziamenti pubblici o privati” è considerato “una condizione necessaria al successo del Piano”. Il problema, però, è dove trovarle, nell'attuale condizione di ristrettezze di bilancio.
Miglioramenti - In assenza di certezze sugli investimenti le proposte di miglioramento contenute nella ricerca si concentrano su risparmi e razionalizzazioni delle iniziative previste nel Piano. Si suggerisce, per esempio, di non concentrarsi solo sulle lavagne interattive ma di aprirsi anche ad altre tecnologie. Per esempio, visualizzatori e proiettori che insieme a un computer di classe, “possono offrire gran parte delle funzionalità didattiche” delle LIM a “un minor costo”.
Sul fronte dei contenuti, vengono auspicate la creazione di una banca nazionale delle risorse didattiche digitali per favorire la circolazione delle idee e la traduzione della migliore offerta straniera. Infine, dagli analisi dell'Ocse viene vista di buon occhio una piattaforma virtuale in cui gli insegnanti possano condividere le loro esperienze sull'uso di specifici dispositivi e le loro risorse educative.
Alcune linee di azione, invece, possono essere eliminate. È il caso, per esempio, dell'iniziativa cl@sse 2.0, che assegna una somma forfettaria per l'innovazione ad una determinata classe, e di cui si suggerisce l'interruzione. Al suo posto si consiglia un programma competitivo in cui i fondi pubblici siano assegnati anche in base alle capacità degli istituti di attrarre co-finanziamenti privati.
Punti di forza – I problemi, dunque, sono tanti. Anche se non tutto è da buttare via. Nel suo complesso il Piano italiano è giudicato “ben strutturato” e con vari punti di forza. Gli strumenti individuati sono in sintonia con gli obiettivi e la strategia scelta non sembra incontrare resistenze da parte degli insegnanti. Il sistema per le procedure di acquisto delle Lim è giudicato efficiente e il cambiamento si sta diffondendo. Insomma, non tutto è perduto. Può anche darsi che, se lavoreremo bene, agli esami di riparazione ce la faremo.
Gli sforzi ci sono ma il ritardo accumulato dalla scuola digitale italiana è già parecchio. E rischia di diventare cronico se non si accelera. Il giudizio arriva da uno studio dell'Ocse che ha analizzato le strategie messe a punto dal nostro Paese per rendere più tecnologico il sistema dell'istruzione. Presentata a Roma il 6 marzo, l'indagine dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha esaminato il Piano Nazionale Scuola Digitale lanciato dal ministero dell'Istruzione nel 2007 delineando un quadro fatto di luci, ombre (queste ultime in maggioranza) e di progressi giudicati “insufficienti”. Come dire, rimandati a settembre.
Lenti alla meta - A preoccupare maggiormente gli osservatori dell'Ocse è la lentezza con cui l'innovazione si sta facendo strada in Italia. Nel 2012, per esempio, solo il 16 per cento delle classi italiane erano dotate di lavagne interattive (Lim, +11% rispetto al 2010). Nel Regno Unito erano l'80 per cento (53 % nei Paesi Bassi, 49% in Australia).
A questo ritmo di crescita – sottolinea poi la ricerca – “ci vorranno più di 15 anni” per raggiungere il livello britannico. Il rischio, insomma, è quello di restare sempre più lontani dai primi. Anche perché, lavagne a parte, è tutto il sistema dell'innovazione scolastica a soffrire. Nel 2011 solo il 30% degli studenti nostrani utilizzava tecnologie della comunicazione come strumento di apprendimento contro una media Ocse del 48.
Cinque euro all'anno per studente – Uscire da questa situazione non appare facile. Anche perché i mezzi per farlo scarseggiano. I ritardi, secondo i ricercatori, sono infatti figli di risorse a disposizione giudicate “modestissime”. I 30 milioni di euro stanziati per il Piano vogliono dire meno dello 0,1 per cento della spesa pubblica per l'istruzione e meno di 5 euro per studente all'anno. Un'inezia. Per l'Ocse, quindi, “un aumento significativo delle risorse attraverso finanziamenti pubblici o privati” è considerato “una condizione necessaria al successo del Piano”. Il problema, però, è dove trovarle, nell'attuale condizione di ristrettezze di bilancio.
Miglioramenti - In assenza di certezze sugli investimenti le proposte di miglioramento contenute nella ricerca si concentrano su risparmi e razionalizzazioni delle iniziative previste nel Piano. Si suggerisce, per esempio, di non concentrarsi solo sulle lavagne interattive ma di aprirsi anche ad altre tecnologie. Per esempio, visualizzatori e proiettori che insieme a un computer di classe, “possono offrire gran parte delle funzionalità didattiche” delle LIM a “un minor costo”.
Sul fronte dei contenuti, vengono auspicate la creazione di una banca nazionale delle risorse didattiche digitali per favorire la circolazione delle idee e la traduzione della migliore offerta straniera. Infine, dagli analisi dell'Ocse viene vista di buon occhio una piattaforma virtuale in cui gli insegnanti possano condividere le loro esperienze sull'uso di specifici dispositivi e le loro risorse educative.
Alcune linee di azione, invece, possono essere eliminate. È il caso, per esempio, dell'iniziativa cl@sse 2.0, che assegna una somma forfettaria per l'innovazione ad una determinata classe, e di cui si suggerisce l'interruzione. Al suo posto si consiglia un programma competitivo in cui i fondi pubblici siano assegnati anche in base alle capacità degli istituti di attrarre co-finanziamenti privati.
Punti di forza – I problemi, dunque, sono tanti. Anche se non tutto è da buttare via. Nel suo complesso il Piano italiano è giudicato “ben strutturato” e con vari punti di forza. Gli strumenti individuati sono in sintonia con gli obiettivi e la strategia scelta non sembra incontrare resistenze da parte degli insegnanti. Il sistema per le procedure di acquisto delle Lim è giudicato efficiente e il cambiamento si sta diffondendo. Insomma, non tutto è perduto. Può anche darsi che, se lavoreremo bene, agli esami di riparazione ce la faremo.