La pillola abortiva è in commercio in Italia dal 1 aprile 2010: secondo l'azienda che la distribuisce negli ospedali è stata usata 6.600 volte su un totale di 120 mila interruzioni di gravidanza. I medici denunciano ostacoli e lentezze
di Cristina Bassi
Il primo anno della pillola abortiva in Italia è stato in salita. L’1 aprile 2010 la Ru486 è entrata in commercio nel nostro Paese, ma l’aborto farmacologico, considerato meno invasivo, è ancora lontano dall’essere una vera alternativa all’interruzione di gravidanza chirurgica. Non è facile fare un bilancio di questi dodici mesi. Il ministero della Salute, dove il sottosegretario Eugenia Roccella si occupa di donne e gravidanza e ha spesso espresso dubbi sulla pillola abortiva, spiega che i dati ufficiali per ora non sono disponibili. Nordic Pharma, l’azienda che distribuisce il farmaco, ha invece comunicato cifre molto precise relative al periodo aprile 2010-marzo 2011. A livello nazionale la percentuale delle interruzioni con il farmaco sul totale degli aborti volontari è piuttosto bassa: 6.600 su circa 121 mila (dato dall'ultima relazione del ministero, riferita al 2008), cioè poco più di una su venti.
Le scatole vendute in Italia sono state 6.066, 6.654 gli aborti farmacologici effettuati negli ospedali: “questo perché – sottolinea Marco Durini, medical director di Nordic Pharma – mentre tutte le regioni usano una sola scatola per ogni protocollo, in Emilia Romagna ne usano una per tre procedure”. Tra le regioni, il primato va al Piemonte, con 1.624 scatole. Molte di queste, circa 900, sono state usate all’ospedale Sant’Anna di Torino da Silvio Viale, il ginecologo da anni impegnato anche politicamente per l’introduzione della Ru486. Nel reparto di Viale il 23 per cento degli aborti, quasi uno su quattro, è stato portato a termine con la pillola. “Il 23 per cento – dichiara il medico – è una percentuale che in Francia, dove la Ru è in uso dal 1988, hanno raggiunto in dieci anni”. Il primo posto del Piemonte non è comunque dovuto solo all’attività di Viale ed è stato raggiunto nonostante proprio un anno fa il governatore Roberto Cota avesse detto che per lui il farmaco poteva “restare nei magazzini”.
Nelle altre regioni i numeri scendono. In Toscana sono state vendute 773 confezioni, in Liguria 735. Decisamente più basse le cifre di Calabria e Abruzzo, 15 scatole, e Marche, 5. “Ci sono poi regioni come Lazio e Lombardia – continua Durini – che pur avendo il maggior numero di aborti l’anno in Italia e quindi un interesse maggiore al farmaco, sono quelle dove la Ru486 stenta maggiormente. Basti pensare che in Lombardia, dove gli aborti in un anno sono stati più di 5 mila, secondo i dati Istat, le confezioni acquistate sono state 604 e nel Lazio, dove le interruzioni volontarie di gravidanza sono state oltre 3 mila, solo 142 le scatole comprate”. Due amministrazioni in cui le posizioni del centrodestra, esplicitamente contrarie all’aborto “chimico”, hanno forse pesato di più sulla politica sanitaria. Anche i medici che praticano l’aborto negli ospedali denunciano lentezze e ostacoli. Il caso più clamoroso a Bari, dove Nicola Blasi, ginecologo del Policlinico e punto di riferimento in Puglia per le interruzioni di gravidanza (è uno dei pochi medici non obiettori in regione), qualche giorno fa ha deciso di chiedere il prepensionamento per protesta.
Proprio nel suo ospedale è stata somministrata la prima pillola abortiva lo scorso aprile e successivamente sono state effettuate 300 procedure farmacologiche. Il problema, come ha spiegatp Blasi al Corriere del Mezzogiorno, è che “manca l’organizzazione, così non potevo proseguire”. Il ginecologo accusa il Policlinico di non aver mantenuto le promesse di un’èquipe e un ambulatorio dedicati a questi interventi, ma anche le associazioni, colpevoli di aver “ignorato il problema, di non aver intrapreso alcuna iniziativa affinché il tema dell’aborto e dell’uso della Ru non finisse nel dimenticatoio. È solo stato attivato un numero verde per le prenotazioni – conclude Blasi –, ma continuo a somministrare la pillola alle pazienti dove capita, dove c’è spazio. (...) Tante altre donne, che pur avevano chiesto di abortire chimicamente, non le ho potute accontentare perché non eravamo in grado di far fronte alla domanda. È bene ricordare che i tempi di intervento sono brevissimi, bisogna somministrare la pillola entro la settima settimana”. Le difficoltà organizzative e la mancanza di risorse sono confermate anche da Viale. “Le interruzioni di gravidanza – dice – non sono una priorità per nessun amministratore, tantomeno lo è la Ru486, se non per porre ostacoli. Sul farmaco c’è stato un veto da inquisizione medievale per vent’anni, ma su tutta la materia c’è un distacco ipocrita e irresponsabile della politica”. Uno dei problemi più dibattuti riguarda il ricovero della donna che abortisce con la pillola. C’è chi ha suggerito la somministrazione in day hospital, ma l’intera procedura di interruzione di gravidanza, farmacologica o chirurgica, deve svolgersi per legge in ospedale.