Noi donne “dannate” nei campi. E vittime di caporali

Cronaca
pomodori

Raccolgono gli agrumi o i pomodori: 14 ore al giorno per 30 euro. Sono italiane e madri di famiglia schiavizzate dagli intermediari di manodopera. “Umiliarsi e sottostare: è questo il nostro lavoro. Altrimenti i figli non mangiano”

Leggi il reportage di Sky.it con le foto di Francesco Cito
Stop caporalato: per vincere la "schiavitù" serve una legge

di Chiara Ribichini


“Ho imparato a piegare la testa. A non alzare mai gli occhi più su della pianta che mi trovo di fronte. Nessuna domanda, nessun pensiero. Le mani devono essere veloci e non c’è tempo per riflettere. Umiliarsi e sottostare. E’ questo il mio lavoro. Altrimenti la mia famiglia non mangia”.
Nunzia (il nome è di fantasia, ndr) ha 37 anni e vive in un piccolo paese in provincia di Taranto. Ogni giorno, da più di 20 anni, va a lavorare nei campi. La raccolta dei pomodori, così come quella delle arance o dei meloni, non è infatti solo un “terreno per immigrati” ma anche per tante donne italiane, nonostante si tratti un lavoro fisicamente estremamente faticoso.
Incontro Nunzia e suo marito, che lavora come precario in una ditta privata di trasporti, al Teatro Ambra Jovinelli di Roma in occasione della presentazione della proposta di legge di Cgil, Fillea e Flai per far sì che il caporalato diventi un reato perseguibile penalmente.
“Non dovrei essere qui. Ora mi sono un po’ segnata. Perché di quello che accade nei campi non si deve parlare. Il rischio è che non lavoro più” dice.

Nunzia non è sola. Con lei ci sono una ventina di colleghe che hanno deciso di parlare e chiedere aiuto. C’è un gruppetto di Grottaglie, nel tarantino. Solo lì le donne “schiavizzate” nei campi sono 4 mila. In Italia, dati Cgil, su più di un milione di lavoratori impegnati nel settore agricolo le donne rappresentano il 40%. Molte di loro sono nelle mani di caporali.
“Oggi se vuoi lavorare devi rivolgerti a un intermediario di manodopera” spiega Maria, sessant’anni di cui 35 passati nei campi.
La paga? 25-30 euro per una giornata. Ma si può arrivare a 17-18 euro. Dipende dalla percentuale che si prende il caporale. E più braccia ha, più guadagna. “Per questo – racconta Maria – i caporali sono molto gentili. Cercano di accattivarsi le loro vittime andandole a prendere direttamente a casa in automobile”. Per rendere più semplice e diretto il rapporto “datore di lavoro-dipendente” il caporale è spesso affiancato da una donna.
“Di solito è la sua compagna. Viene con noi nei campi e, mentre lavoriamo, ci sta con il fiato sul collo. Ci dice di sbrigarci, ci accompagna in bagno”.
Bagno che altro non è che un posto tra i campi un po’ appartato. “Non possiamo far pipì più di una volta al giorno. Per questo non ci è concesso bere acqua” continua Maria.

Le ore di lavoro variano in base alle stagioni: l’estate, grazie alla luce del sole, si può arrivare a 14 ore. L’inverno, invece, difficilmente si superano le 8-9 ore lavorative.
A queste deve aggiungersi il tempo degli spostamenti. Un tempo, ovviamente, non retribuito. “A volte per raggiungere i terreni ci vogliono anche due ore di automobile”. E guai a chiedere sconti. “La vigilia di Pasqua volevamo uscire dopo 8 ore di lavoro per poter cucinare – ricorda Maria – Il nostro caporale è salito su un tavolo e ha iniziato ad urlare dicendoci che noi non avevamo diritto di avanzare pretese. Dovevamo solo eseguire i suoi ordini. Noi siamo solo numeri. Non possiamo dire niente, altrimenti domani non lavoriamo più”.
Ma, se interpellate, rispondono a comando: “Se ci facciamo male siamo costrette a dire che è accaduto a casa, se arriva un controllo dobbiamo sempre raccontare che usiamo i guanti, che non lavoriamo più di 8 ore”. Nunzia, invece, non ha un caporale ma una “fattora”. “E’ una lavoratrice come noi che si occupa di procurarci il lavoro. Tiene i contatti tra noi e le aziende, ci viene a prendere la mattina e ci porta nei campi. Ma non prende la percentuale”.

Capelli biondi e ricci, un filo di matita che segna il contorno degli occhi, Nunzia non nasconde la sua paura di parlare. Né la sua sofferenza. E più volte la voce si rompe e si interrompe. E in quei momenti stringe a sé il piumino marrone che indossa.
“Mi sveglio ogni mattina alle 3:30. In questi giorni stiamo raccogliendo le arance, a febbraio marzo sarà la volta della legatura dei vigneti. Ad aprile, quando la vite inizierà a germogliare, dovremo togliere tutto e lasciare solo la parte buona. A giugno sarà il momento dei pomodori...”.
E così, ogni anno, il ciclo si ripete. Non i conti. “C’è chi se ne approfitta e a fine giornata non ti paga. O chi ti versa meno contributi di quelli che dovrebbe. Così, ogni volta che telefono all’Inps per sapere in un anno quante giornate mi hanno pagato è sempre una sorpresa. In negativo, ovviamente” racconta Nunzia. Non solo. “Se decidi di rivendicare qualcosa, spesso scopri che l’azienda per cui hai lavorato non esiste più. Perché nascono e muoiono srl alla velocità della luce” racconta Nunzia. Per questo ogni sera “rientro a casa e non mi sento né carne né pesce. Mi sento solo una dannata”.

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