Antonio Pelle, il nipote del boss coinvolto nella presunta truffa di esami facili all'università non è un’eccezione: la criminalità organizzata dà sempre più importanza al titolo di studio. I casi più clamorosi di mafiosi che hanno deciso di laurearsi
Trenta, ventuno, ventisei: come libretto universitario, non c’è male. Ventidue esami, tutti in Architettura, a Reggio Calabria, fermati solo da un arresto, nell’aprile 2010, che ha bloccato una laurea forse sicura.
Antonio Pelle, nipote del boss di San Luca, era un vero portento dell’accademia: bastava un mese e mezzo, e sul libretto comparivano nove voti per altrettante materia. Una carriera fulminante, messa in dubbio, come raccontano da alcuni quotidiani, da troppi errori grammaticali e da una gragnola di telefonate (118 per l’esattezza), intercettate dalla procura e indirizzate al responsabile della segreteria della facoltà, in cui si chiedono interventi e raccomandazioni.
Quella di Pelle, però non è un’eccezione. Chi pensa ai boss di un tempo che della scuola e del pezzo di carta nutrivano una diffidenza, si sbaglia.
Dimenticate allora i pizzini sgrammaticati di Provenzano; le frasi poco fluide di Riina, le voci impastate e gli ausiliari incerti di altri pluriomicidi.
Perchè, anche quando la grammatica traballa, tra boss (e presunti boss), la laurea conta, eccome. E per ottenerla si può scomodare chiunque. Anche uno storico della letteratura che insegna alla Normale di Pisa e alla Yale University come Salvatore Silvano Nigro. L’episodio, raccontato qualche tempo fa da Pietrangelo Buttafuoco, ha per protagonisti un telefono e una voce sorniona (e inquietante).
Si svolge in due sequenze a ridosso di una dozzina di ore l’una dall’altra.
La prima inizia quando un giorno, a casa Nigro, squilla il telefono: «"Pronto, parlo col professore Nigro?". "Sì". "Buonasera professore, sono Nitto Santapaola, lei mi capisce…". "Capisco". "Domani professore, verrà a fare esami da lei una mia nipote, lei mi capisce…". "Capisco". "Ci siamo capiti". Clic.».
La seconda si avvia con una bella ragazza, "impreparata come una pala di ficodindia" che si presenta all'esame. Racconta Buttafuoco «che il nostro Silvano comincia l'esame con una domanda facile facile: "Allora, il nome di un poeta che nasce a Firenze. Da-da-dan…". Niente, la ragazza sta zitta. "Allora", continua Nigro, "C'è un poema famoso, assai famoso. Tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Pa-pa-pa-ra-ra…". Niente, la ragazza è immobile, non muove labbro, non spiccica parola. L'esame è pubblico e Nigro non può certo forzare la situazione, alza l'ingegno e si prende il libretto della ragazza. "Senta signorina", le dice, "adesso le metto il voto". A quella sembra di ritrovarsi nel libretto un trenta e lode. "Non ha capito signorina", le spiega Nigro, "questo è un tre e lode. Tre per l'esame, la lode per lo zio". Prestate attenzione: il pomeriggio Nigro ritorna ai propri libri, squilla il telefono e una voce da gatto gli dice: "…ma allora lei, professore, è spiritoso. Mi piace!". Clic».
Quella storia finisce bene, anche perché Santapaola è stato arrestato (non per questo, ovviamente). Ma di boss che si danno all’università, c’è ne è comunque parecchi.
Giuseppe Gullotti, per esempio, capo clan a Barcellona Pozzo di Gotto, che in carcere ha preso l’alloro in Giursipredenza. O lo stuolo di medici finiti in galera (e dunque già laureati) che controllavano uomini, traffici di dorga (e di voti) senza schiodarsi dalla loro qualifica professionale.
O ancora, Pietro Aglieri boss condannato per la strage di via d’Amelio, che - come ha raccontato Franco Giustolisi - dal carcere ha deciso di iscriversi in Lettere Filosofia, scegliendo nienetedimeno che l'indirizzo teologico. Una carriera promettente iniziata con un bel trenta in Storia del cristianesimo.
Antonio Pelle, nipote del boss di San Luca, era un vero portento dell’accademia: bastava un mese e mezzo, e sul libretto comparivano nove voti per altrettante materia. Una carriera fulminante, messa in dubbio, come raccontano da alcuni quotidiani, da troppi errori grammaticali e da una gragnola di telefonate (118 per l’esattezza), intercettate dalla procura e indirizzate al responsabile della segreteria della facoltà, in cui si chiedono interventi e raccomandazioni.
Quella di Pelle, però non è un’eccezione. Chi pensa ai boss di un tempo che della scuola e del pezzo di carta nutrivano una diffidenza, si sbaglia.
Dimenticate allora i pizzini sgrammaticati di Provenzano; le frasi poco fluide di Riina, le voci impastate e gli ausiliari incerti di altri pluriomicidi.
Perchè, anche quando la grammatica traballa, tra boss (e presunti boss), la laurea conta, eccome. E per ottenerla si può scomodare chiunque. Anche uno storico della letteratura che insegna alla Normale di Pisa e alla Yale University come Salvatore Silvano Nigro. L’episodio, raccontato qualche tempo fa da Pietrangelo Buttafuoco, ha per protagonisti un telefono e una voce sorniona (e inquietante).
Si svolge in due sequenze a ridosso di una dozzina di ore l’una dall’altra.
La prima inizia quando un giorno, a casa Nigro, squilla il telefono: «"Pronto, parlo col professore Nigro?". "Sì". "Buonasera professore, sono Nitto Santapaola, lei mi capisce…". "Capisco". "Domani professore, verrà a fare esami da lei una mia nipote, lei mi capisce…". "Capisco". "Ci siamo capiti". Clic.».
La seconda si avvia con una bella ragazza, "impreparata come una pala di ficodindia" che si presenta all'esame. Racconta Buttafuoco «che il nostro Silvano comincia l'esame con una domanda facile facile: "Allora, il nome di un poeta che nasce a Firenze. Da-da-dan…". Niente, la ragazza sta zitta. "Allora", continua Nigro, "C'è un poema famoso, assai famoso. Tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Pa-pa-pa-ra-ra…". Niente, la ragazza è immobile, non muove labbro, non spiccica parola. L'esame è pubblico e Nigro non può certo forzare la situazione, alza l'ingegno e si prende il libretto della ragazza. "Senta signorina", le dice, "adesso le metto il voto". A quella sembra di ritrovarsi nel libretto un trenta e lode. "Non ha capito signorina", le spiega Nigro, "questo è un tre e lode. Tre per l'esame, la lode per lo zio". Prestate attenzione: il pomeriggio Nigro ritorna ai propri libri, squilla il telefono e una voce da gatto gli dice: "…ma allora lei, professore, è spiritoso. Mi piace!". Clic».
Quella storia finisce bene, anche perché Santapaola è stato arrestato (non per questo, ovviamente). Ma di boss che si danno all’università, c’è ne è comunque parecchi.
Giuseppe Gullotti, per esempio, capo clan a Barcellona Pozzo di Gotto, che in carcere ha preso l’alloro in Giursipredenza. O lo stuolo di medici finiti in galera (e dunque già laureati) che controllavano uomini, traffici di dorga (e di voti) senza schiodarsi dalla loro qualifica professionale.
O ancora, Pietro Aglieri boss condannato per la strage di via d’Amelio, che - come ha raccontato Franco Giustolisi - dal carcere ha deciso di iscriversi in Lettere Filosofia, scegliendo nienetedimeno che l'indirizzo teologico. Una carriera promettente iniziata con un bel trenta in Storia del cristianesimo.