Massimo, creatore del gruppo su Facebook "Quelli che a L'Aquila alle 3:32 non ridevano", racconta lo sdegno e la rabbia di chi vive il terremoto tutti i giorni. Perché se l'emergenza è finita, la "ricostruzione della nostra città non è ancora iniziata"
di Pamela Foti
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“Mentre l’Aquila moriva loro ridevano. Nell’apice della tragedia pensavano ai loro affari. All’inizio mi sono trattenuto. Poi è scoppiato lo sdegno”.
Massimo ha 50 anni, è aquilano e il 6 aprile 2009 alle 3.32 mentre il terremoto sbriciolava la sua città era a casa, nel suo letto, come tutti.
“Giovedì sera ho letto delle intercettazioni – quelle relative all’inchiesta Grandi Opere - Ho letto che c’era chi cercava di trarre profitto dal nostro dolore. Questa cosa è inaccettabile. Siamo davanti a degli sciacalli.”.
E’ dallo sdegno che Massimo decide di creare il gruppo su Facebook Quelli che a L'Aquila alle 3:32 non ridevano. “In poco più di 24 ore si sono iscritte oltre 13 mila persone. Non me lo aspettavo. Non mi aspettavo una risposta così grande e così forte. Ma ognuno ha la sua storia da raccontare. Una storia terribile. E poco alla volta gli aquilani e non, sono arrivati qui per dire dove erano il 6 aprile”.
Anche Massimo ha la sua storia. E’ informatico, lavora all’Università, ha un figlio e quella notte, subito dopo la scossa ha obbligato i suoi genitori a lasciare casa per mettersi al sicuro. Lui, invece, è rimasto fermo nel suo salotto. E’ disabile, non può camminare. Ha aspettato l’arrivo dei soccorsi temendo che il tetto venisse giù.
“Ci sono state persone molto più coraggiose di me – ci dice - Come un’infermiera che è stata tra le prime a iscriversi al gruppo e a raccontare che il 6 aprile era al pronto soccorso, tra sangue e flebo, gente in stato confusionale e gente in lacrime. Tra chi chiedeva dove fossero parenti e amici. E chi non aveva il coraggio di rispondere per dire che non c’erano più”.
“Noi viviamo ancora il terremoto – dice Massimo – lo viviamo tutti i giorni. I media dicono che l’emergenza è stata risolta. E’ vero. Ma la città non è ancora stata ricostruita. La città non è più la nostra città. Abbiamo perso le nostre case, le nostre piazze, le vie dove ci siamo scambiati il primo bacio, quelle dove ci siamo innamorati. Ecco, Facebook spesso in questi mesi ci è servito per scambiarci idee e ricordi. Per sentirci meno soli. Perché il dolore pesa meno se lo condividi con gli altri”.
“Ho letto che questi imprenditori non hanno preso un euro dalla ricostruzione della città. Mi auguro che sia vero. Ma tra bandi, gare, appalti e subappalti, la situazione sfugge al controllo. Se qualcuno ha sbagliato deve pagare. Pagare senza sconti, perché approfittarsi delle debolezze di uomini e donne è inaccettabile”.
E infine Massimo aggiunge: “Ecco, forse dovrebbero subire quello che abbiamo subito noi. Le scosse, i calcinacci, la polvere. E il dramma dei mesi dopo”.
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Massimo ha 50 anni, è aquilano e il 6 aprile 2009 alle 3.32 mentre il terremoto sbriciolava la sua città era a casa, nel suo letto, come tutti.
“Giovedì sera ho letto delle intercettazioni – quelle relative all’inchiesta Grandi Opere - Ho letto che c’era chi cercava di trarre profitto dal nostro dolore. Questa cosa è inaccettabile. Siamo davanti a degli sciacalli.”.
E’ dallo sdegno che Massimo decide di creare il gruppo su Facebook Quelli che a L'Aquila alle 3:32 non ridevano. “In poco più di 24 ore si sono iscritte oltre 13 mila persone. Non me lo aspettavo. Non mi aspettavo una risposta così grande e così forte. Ma ognuno ha la sua storia da raccontare. Una storia terribile. E poco alla volta gli aquilani e non, sono arrivati qui per dire dove erano il 6 aprile”.
Anche Massimo ha la sua storia. E’ informatico, lavora all’Università, ha un figlio e quella notte, subito dopo la scossa ha obbligato i suoi genitori a lasciare casa per mettersi al sicuro. Lui, invece, è rimasto fermo nel suo salotto. E’ disabile, non può camminare. Ha aspettato l’arrivo dei soccorsi temendo che il tetto venisse giù.
“Ci sono state persone molto più coraggiose di me – ci dice - Come un’infermiera che è stata tra le prime a iscriversi al gruppo e a raccontare che il 6 aprile era al pronto soccorso, tra sangue e flebo, gente in stato confusionale e gente in lacrime. Tra chi chiedeva dove fossero parenti e amici. E chi non aveva il coraggio di rispondere per dire che non c’erano più”.
“Noi viviamo ancora il terremoto – dice Massimo – lo viviamo tutti i giorni. I media dicono che l’emergenza è stata risolta. E’ vero. Ma la città non è ancora stata ricostruita. La città non è più la nostra città. Abbiamo perso le nostre case, le nostre piazze, le vie dove ci siamo scambiati il primo bacio, quelle dove ci siamo innamorati. Ecco, Facebook spesso in questi mesi ci è servito per scambiarci idee e ricordi. Per sentirci meno soli. Perché il dolore pesa meno se lo condividi con gli altri”.
“Ho letto che questi imprenditori non hanno preso un euro dalla ricostruzione della città. Mi auguro che sia vero. Ma tra bandi, gare, appalti e subappalti, la situazione sfugge al controllo. Se qualcuno ha sbagliato deve pagare. Pagare senza sconti, perché approfittarsi delle debolezze di uomini e donne è inaccettabile”.
E infine Massimo aggiunge: “Ecco, forse dovrebbero subire quello che abbiamo subito noi. Le scosse, i calcinacci, la polvere. E il dramma dei mesi dopo”.
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