Vajont, il percorso della memoria
CronacaNella notte del 9 ottobre 1963 quasi 2000 persone sono uccise da un'enorme ondata di acqua e fango. I luoghi che raccontano la tragedia del Vajont aiutano a non dimenticare anche chi è rimasto là dove tutto è assordante silenzio e indescrivibile rumore
di Marcello Barisione
Il rumore - Quello che nessuno dei sopravvissuti riesce a raccontare è il rumore. Il rumore di un monte che si stacca dal resto del mondo. Il rumore di un'onda scura che in una notte di ottobre uccide duemila persone e rovina la vita dei superstiti. Il rumore di un calvario che non finisce con il disastro ma che continua tra processi, deportazioni e bugie. A Longarone ancora oggi nessuno riesce a parlare del rumore. Si racconta la storia, restituita al mondo da Tina Merlin prima e da Marco Paolini poi. Si visitano i luoghi della memoria: il Cimitero di Fortogna, la Chiesa dell'Architetto Giovanni Michelucci e Longarone stessa. Poi, quando si trova il coraggio, si alza lo sguardo verso di lei. Verso la Diga. Possente, maestosa e immobile.
La diga del Vajont è ancora lì. Dalle foto sembra minacciosa, dal vivo sembra lontana, pacifica, quasi immersa tra le montagne. Il vero luogo della memoria è lassù, a fianco della grande opera dell’ingegno e della pazzia umana. Lassù, dentro la frana del Monte Toc che il lago che c'era non lo fa neppure supporre. Di quello che c’era “prima” è rimasta solo lei, il resto è cambiato il 9 ottobre 1963 alle 22.39 di sera. Lo raccontano le guide del posto: ragazzi di Longarone, di Erto, di Casso e di tutte quelle zone colpite a morte da un lutto eterno. Tutto ha un inizio e tutto ha una fine. E a Longarone l’inizio e la fine sono il Vajont.
Il percorso della memoria - Dal 2007 con il nuovo coronamento camminabile è possibile attraversare la diga. Dai 260 metri del punto più alto dello sbarramento del Vajont si vede Longarone in fondo alla valle, dall’altra parte c’è la frana dove avrebbe dovuto esserci il lago. In poco tempo si condivide l'odio per la SADE, si impara ad immaginare la piana di fango, si percepisce la dimensione del disastro. Forse.
E a capire chi è rimasto quanto ci vuole? Il percorso della memoria inizia con la voce rotta dalla commozione della guida. Per chi questa tragedia l’ha solo studiata a scuola o letta sui giornali, il dramma del Vajont finisce il 9 ottobre 1983 dopo quasi vent’anni di denunce e di stragi annunciate. Per la gente che non è finita sotto quell’onda però è cominciata un’altra via crucis. Sono occorsi lunghissimi anni di battaglie giudiziarie perché i sopravvissuti, gli emigranti che avevano perso tutto ed i parenti delle vittime ottenessero un risarcimento.
Per gli sfollati era stato costruito un nuovo paese nella pianura friulana, battezzato Vajont. Un secondo gruppo di famiglie fu stanziato nella "Nuova Erto" presso Ponte nelle Alpi. Per Longarone e le sue frazioni invece erano stati chiamati i più grandi urbanisti del tempo: dovevano misurarsi con un nuovo modello di città, capace di rinascere e di ricordare allo stesso tempo.
Il presente - Oggi Longarone è la somma poco amalgamata di un enorme esperimento urbanistico con grandi, forse sovradimensionate, infrastrutture. Quella che abita in città è in gran parte gente giunta dopo la sciagura. Sta di fatto che il nuovo centro sportivo e una parte di polo fieristico sorgono in una potenziale zona di rischio idrogeologico lungo l’alveo del fiume Piave. Erto è rinata, grazie ad un pugno di irriducibili cittadini capaci di ricostruire per intero il vecchio villaggio. Casso, il cui centro storico fu risparmiato dalla sciagura, ha perso invece la sua forza: le terre collettive e private erano sulle pendici della frana. A distanza di quarantacinque anni, in una valle dalla morfologia sconvolta, anche grazie alla ricostruzione del dopo Vajont, il nord-est è diventato una delle locomotive d’Italia. Ma qualche chilometro sopra Belluno la parola stato, la parola giustizia e la parola Vajont non si pronunciano mai per caso, anche loro fanno troppo rumore.
Il rumore - Quello che nessuno dei sopravvissuti riesce a raccontare è il rumore. Il rumore di un monte che si stacca dal resto del mondo. Il rumore di un'onda scura che in una notte di ottobre uccide duemila persone e rovina la vita dei superstiti. Il rumore di un calvario che non finisce con il disastro ma che continua tra processi, deportazioni e bugie. A Longarone ancora oggi nessuno riesce a parlare del rumore. Si racconta la storia, restituita al mondo da Tina Merlin prima e da Marco Paolini poi. Si visitano i luoghi della memoria: il Cimitero di Fortogna, la Chiesa dell'Architetto Giovanni Michelucci e Longarone stessa. Poi, quando si trova il coraggio, si alza lo sguardo verso di lei. Verso la Diga. Possente, maestosa e immobile.
La diga del Vajont è ancora lì. Dalle foto sembra minacciosa, dal vivo sembra lontana, pacifica, quasi immersa tra le montagne. Il vero luogo della memoria è lassù, a fianco della grande opera dell’ingegno e della pazzia umana. Lassù, dentro la frana del Monte Toc che il lago che c'era non lo fa neppure supporre. Di quello che c’era “prima” è rimasta solo lei, il resto è cambiato il 9 ottobre 1963 alle 22.39 di sera. Lo raccontano le guide del posto: ragazzi di Longarone, di Erto, di Casso e di tutte quelle zone colpite a morte da un lutto eterno. Tutto ha un inizio e tutto ha una fine. E a Longarone l’inizio e la fine sono il Vajont.
Il percorso della memoria - Dal 2007 con il nuovo coronamento camminabile è possibile attraversare la diga. Dai 260 metri del punto più alto dello sbarramento del Vajont si vede Longarone in fondo alla valle, dall’altra parte c’è la frana dove avrebbe dovuto esserci il lago. In poco tempo si condivide l'odio per la SADE, si impara ad immaginare la piana di fango, si percepisce la dimensione del disastro. Forse.
E a capire chi è rimasto quanto ci vuole? Il percorso della memoria inizia con la voce rotta dalla commozione della guida. Per chi questa tragedia l’ha solo studiata a scuola o letta sui giornali, il dramma del Vajont finisce il 9 ottobre 1983 dopo quasi vent’anni di denunce e di stragi annunciate. Per la gente che non è finita sotto quell’onda però è cominciata un’altra via crucis. Sono occorsi lunghissimi anni di battaglie giudiziarie perché i sopravvissuti, gli emigranti che avevano perso tutto ed i parenti delle vittime ottenessero un risarcimento.
Per gli sfollati era stato costruito un nuovo paese nella pianura friulana, battezzato Vajont. Un secondo gruppo di famiglie fu stanziato nella "Nuova Erto" presso Ponte nelle Alpi. Per Longarone e le sue frazioni invece erano stati chiamati i più grandi urbanisti del tempo: dovevano misurarsi con un nuovo modello di città, capace di rinascere e di ricordare allo stesso tempo.
Il presente - Oggi Longarone è la somma poco amalgamata di un enorme esperimento urbanistico con grandi, forse sovradimensionate, infrastrutture. Quella che abita in città è in gran parte gente giunta dopo la sciagura. Sta di fatto che il nuovo centro sportivo e una parte di polo fieristico sorgono in una potenziale zona di rischio idrogeologico lungo l’alveo del fiume Piave. Erto è rinata, grazie ad un pugno di irriducibili cittadini capaci di ricostruire per intero il vecchio villaggio. Casso, il cui centro storico fu risparmiato dalla sciagura, ha perso invece la sua forza: le terre collettive e private erano sulle pendici della frana. A distanza di quarantacinque anni, in una valle dalla morfologia sconvolta, anche grazie alla ricostruzione del dopo Vajont, il nord-est è diventato una delle locomotive d’Italia. Ma qualche chilometro sopra Belluno la parola stato, la parola giustizia e la parola Vajont non si pronunciano mai per caso, anche loro fanno troppo rumore.