Tra lambada e saudade, cosa insegna l’accordo a ribasso della Cop30

Doveva essere una samba. Oppure una lambada, nata proprio qui a Belém. Invece è stato uno tsunami di saudade. La conferenza sul Clima delle Nazioni Unite numero 30 si è conclusa con un accordo malinconico, in tono minore. La roadmap per abbandonare gas, petrolio e carbone non c’è. Al suo posto una versione annacquata, l’unica a mettere d’accordo 194 Paesi: un percorso per spingerli a fare di meglio sui cosiddetti contributi determinati a livello nazionale. Cioè gli obiettivi climatici che i singoli Paesi, sulla base dell’accordo di Parigi, sono tenuti a presentare periodicamente per limitare il riscaldamento globale a un grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali. Una soglia pericolosa che temporaneamente abbiamo superato, soprattutto per colpa di quelle fonti fossili che non sono comparse nell’accordo. È mancato il consenso, il meccanismo che regola le Cop. È mancato soprattutto per i Paesi arabi che sono usciti allo scoperto respingendo qualsiasi riferimento nel testo. Nessun passo avanti dunque rispetto a quell’unica, storica, menzione già decisa a Dubai due anni fa. Pochi passi avanti anche sulla finanza per il clima. Forse è stato il Brasile, fin dall’inizio, a mettere l’asticella troppo in alto. Ma il risultato di questa Cop, deludente come lo era stato l’anno scorso quello di Baku, porta ancora una volta a interrogarsi sul senso di un processo lento e frustrante come quello delle Nazioni Unite. Inadatto a rispondere all’emergenza della crisi climatica. È un dibattito che va avanti da anni e che anche su queste pagine abbiamo affrontato più volte. Si potrebbe cambiare il meccanismo del consenso, certo, ma è una via senza uscita perché per farlo occorre il consenso. Forse sarebbe meglio non riporre tutte le speranze in queste due settimane che ogni anno ci portano da una parte all’altra del mondo. Forse sarebbe meglio a guardare a piccole conferenze, una per ogni tavolo su cui servono soluzioni. Anche questa è un’idea che circola da parecchio e a Belém abbiamo visto in questo senso qualcosa di interessante, anche se al di fuori del negoziato. Perché per un gruppo di petrostati che ha bloccato la versione più ambiziosa dell’accordo, ce n’è uno sta provando a guardare avanti. La Colombia, uno dei principali esportatori di petrolio, da qualche anno ha cambiato rotta e in Brasile è diventato il capofila di una coalizione di ambiziosi che vuole spingere l’acceleratore sull’abbandono delle fonti fossili. Ha annunciato che organizzerà una conferenza insieme all’Olanda nell’aprile 2026 e la seguono decine di Paesi, tanti europei . Intanto però, cosa ce ne facciamo delle Conferenze sul Clima? Almeno fino a quando qualcuno non inventerà uno strumento migliore, rimangono l’unica via democratica per lottare contro la crisi climatica. L’unico spazio in cui i piccoli Stati con l’acqua alla gola possono fare sentire la propria voce insieme ai Paesi più industrializzati. Dati alla mano hanno prodotto dei risultati: l’Accordo di Parigi sta funzionando. Fino a 10 anni fa era previsto un innalzamento delle temperature dai 3.7 ai 4.8 gradi entro la fine del secolo. Dopo l’Accordo, con le politiche attuali, siamo passati a 2.6 gradi. Lontani dall’obiettivo ma con migliaia di vite salvate rispetto al passato. Parigi ma non solo. Anche di recente le Cop hanno dimostrato di saper funzionare. A Sharm el Sheikh è stata vinta la battaglia lunga trent’anni per il fondo sulle perdite e i danni. Oggi grazie a quella battaglia iniziano ad arrivare i primi soldi. Non sarà più il multilateralismo di una vola ma fino a quando è possibile conviene provare a tenerlo in vita.

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Tra lambada e saudade, cosa insegna l’accordo a ribasso della Cop30

Alberto Giuffrè