L’alpinismo secondo Moro: "La mia aria sottile, vietato improvvisare"

La prima volta che ho incontrato Simone Moro di persona è stato tra i tavoli e le panche dello Sherpa Lodge, a Lukla, l’aeroporto nepalese dove atterrano, non senza qualche brivido, tutti gli aerei carichi di persone dirette verso l’Everest. Era la primavera del 2011 e Simone ci diede uno “strappo” con il suo elicottero da Luka fino a Namche Bazar, a 3440 metri, da dove poi avremmo raggiunto a piedi la Piramide di EvK2Cnr e poi il campo base dell’Everest, appunto. Pochi mesi prima, Simone, con Denis Urubko e Cory Richards, aveva realizzato la prima salita invernale del Gasherbrum II, a 8035 metri, prima invernale assoluta di un Ottomila del Karakorum e aveva iniziato a cimentarsi non da molto con la sua seconda passione, vale a dire proprio l’elicotterismo d’alta quota, per soccorso, ma anche per semplice trasporto. Da allora sono passati gli anni, e in mezzo ci sono state molte cime, molte avventure e molte cose, in montagna, sono cambiate. A testimoniarlo anche i libri, che Simone ha sempre scritto con un buon ritmo. L’ultimo, “GLI OTTOMILA AL CHIODO”, edito da Rizzoli, è l’occasione per Moro di fare un punto sull’alpinismo, non solo himalayano, e di mettere qualche puntino su qualche “i”. Simone, l’anno prossimo saranno 30 anni dalla tua prima salita di un Ottomila. Come è cambiato in questi tre decenni l'alpinismo dal tuo punto di vista? Una volta si era autosufficienti, si era preparatissimi e si vedevano gli Ottomila come un'Olimpiade, cioè dove andavano veramente solo i migliori. Oggi è l'esatto contrario. Gli Ottomila vengono sempre più spesso tentati da principianti, decisamente non autonomi né autosufficienti e quindi difficilmente in grado di scalare da soli, uscire da un crepaccio da soli, scegliere la via di salita da soli, decidere il momento in cui andare, avere la capacità di portarsi lo zaino, individuare dove piazzare i campi etc… Inoltre, in passato si aveva una conoscenza storica di ciò che si andava a fare, della montagna che si andava ad affrontare si sapeva tutto: quali erano le vie di scalata, chi le aveva salite per prima, quali erano i tentativi e così via. Oggi sono “safari d'alta quota”, sono delle proposte turistiche accompagnate - che sono lecite, non c'è nulla di male. Stiamo parlando della differenza che esiste tra fare snorkeling, cioè andare a vedere i pesciolini con la maschera, e andare a 100-150 metri sottacqua senza ossigeno. È impossibile non fare almeno un passaggio sul duro scontro con Marco Confortola, accusato, in maniera frontale, direttamente da te, ma non solo, di non aver raggiunto tutte le vette da 8000 metri. È dai tempi delle polemiche sul K2 degli italiani del 1954 tra Bonatti e Desio, o al compressore di Cesare Maestri, che non si vedeva un livello di conflitto di magnitudo così elevata. Al di là delle questioni tecniche su cui vertono le accuse, perché questa vicenda è venuta fuori ora? Perché solo adesso lui si è dichiarato salitore di tutti i 14 Ottomila e con questo pretende che tutti accettino che ha salito tutte le vette. È all'arrivo di una gara che vieni preso e squalificato. Ci sono alcuni sport che ti squalificano anche durante il percorso. In alpinismo, come in tantissimi altri sport, quando arrivi, ci sono i controlli e se non passi i controlli, vieni squalificato. Non c'è più spazio per dichiarare di aver scalato una montagna senza avere le prove per dimostrarlo. Oggi c'è questa responsabilità. Si è obbligati a portare le prove di una salita. Quando abbiamo scalato il Nanga Parbat in invernale, l'ultima mia salita, Alex Txikon e Alì Sadpara stavano già scendendo, senza fare nessuna foto di vetta. Io mi sono incazzato, ho urlato. Li ho obbligati a tornare indietro, a fare le fotografie e sono stracontento di averlo fatto. Perché sapevo che se non sei in grado di dimostrare una cosa, devi accettare che ti mettano in dubbio. Nel caso di Confortola non manca solo la prova, ci sono foto taroccate e testimonianze di gente che ha le prove che lui non è andato in cima. Confortola dice che è l’invidia a muovere le accuse Nell’ambiente ristretto dell’alpinismo erano voci che giravano con insistenza. Si diceva, dopo ogni vetta mancata e dichiarata come salita, che Marco Confortola aveva detto una bugia. Dopo la prima, la seconda, poi ne è stata detta una terza, poi una quarta, poi una quinta, poi la sesta. Io stesso, dato il livello delle testimonianze, mi sono un po’ sorpreso che tutto rimanesse confinato in voci di corridoio, senza venire fuori ufficialmente. Addirittura lui stesso ha negato di aver raggiunto alcune vette e ha fatto una conferenza sul valore della rinuncia e sull'importanza di saperla accettare, per poi scoprire, dodici mesi dopo, che quanto aveva detto si è trasformato in vetta raggiunta. Onestamente speravamo, osavamo positivamente pensare che lui, dopo aver raggiunto il Gasherbrum I, continuasse e andasse a fare tutte quelle vette delle quali non ha prove di averle salite e ci sono invece solo prove che non lo ha fatto. E invece dichiarando al mondo che ha salito tutti i 14 Ottomila, il mondo alpinistico si è veramente incazzato. Infatti il sentimento che adesso prevale in tutta la comunità alpinistica è quello della rabbia. Sono arrabbiati con Confortola. Non sono gelosi, non sono delusi. Sono arrabbiati. Non avrei mai pensato di dover intervenire personalmente, perché io non ho mai scalato con Confortola e non lo conosco personalmente. Chi ha lanciato la bomba è stato Silvio Mondinelli, il compagno di una delle sue primissime spedizioni. Dopo che si è esposto Mondinelli, sembrava una bega tra Silvio e Confortola. Allora son venuti da me, cercando una voce autorevole, che desse corpo e trasformasse una polemica in una accusa ben precisa e che conoscesse da vicino le circostanze di cui si parla. Premetto che oggi ho sentito anche il re dei re, Reinhold Messner, che ha detto che per lui è una barzelletta questa dichiarazione di 14 Ottomila e che l'unica cosa grave, secondo lui, è che addirittura la politica, o alcune istituzioni, si affianchino a questa barzelletta dell'alpinismo. Reinhold Messner ha dedicato addirittura un capitolo del suo libro alla vicenda Confortola ed è andato giù pesantissimo. Quindi a noi spiace che venga presa come un battibecco tra me e Confortola. Io ho fatto un esercizio in favore della verità e lo stesso metro di misura io lo pretenderei anche con me. Mi rendo conto che per chi non è dentro la vicenda sembra veramente di guardare dei bambini che frignano per il proprio Ego, in una gara a chi è più bravo o chi ce l'ha più lungo e questo mi fa male. La verità è che io ci perdo solo tempo e mi abbasso a un livello di polemica che non mi piace. Però non si può accettare il baro. In qualsiasi sport si condanna il baro, che sia medico, che sia di regole. L'alpinismo è un'oasi di libertà, non è un'oasi di anarchia. Non è che viene a dirmi che ha scalato l'Everest, se sei andato da un'altra parte o non si andato in cima. E quindi questo è un esercizio che spero faccia bene. Sensibilizzi tutti nel sapere che oggi non c'è più spazio per le bugie. Sono recenti le nuove disposizione per poter affrontare un Ottomila stabilite dai governi di Cina e Nepal, come ad esempio l’obbligo di avere una guida professionista, di fornire un una cartella clinica e un curriculum alpinistico. Addirittura, occorre aver già scalato una montagna la cui altezza non sia inferiore di mille metri in dislivello a quella per cui si richiede il permesso. Qual è la tua opinione su queste nuove regole? Dovrei dire che sono degli aspetti che non condivido, ma in realtà queste regole sono nate osservando l'attuale comunità degli himalayisti, persone che nel 95% dei casi non hanno bisogno di guide, ma hanno bisogno di una “babysitter” per riuscire ad andare in cima agli Ottomila. Qualcuno che gli monti la tenda, si prenda carico di posare le corde fisse, di portare le bombole di ossigeno, che gli dica a che ora partire. Per evitare che un domani questi si sentano Messner e possano decidere di scalare senza bombole d'ossigeno, senza guida e così via, correndo enormi rischi, i governi, in buona fede, hanno deciso di imporre delle regole. Un tempo non sarebbe stato necessario perché era diversa l'autonomia e la capacità degli alpinisti che sapevano scalare senza ossigeno, senza guide, per vie nuove, d'inverno e così via. Nel tuo libro ti soffermi molto sull’importanza dell’esplorazione, anche come modo di offrirsi a occasioni di conoscenza. Qual è la differenza tra performance e alpinismo esplorativo? Il termine performance è legato a numeri o al cronometro, quindi il numero più alto di vette scalate o il tempo più veloce per farlo e così via e sono caratteristiche tipiche delle attività dove ci sono delle federazioni, delle competizioni e quant'altro. Chi le ha volute portare nell'alpinismo lo ha fatto sapendo che prima o poi queste performance verranno migliorate. Ci sarà un alpinista più veloce, uno che conquisterà più montagne o che avrà sempre una capacità superiore e quindi queste performance verranno cancellate. L'esplorazione intesa come le scalate storiche è una cosa che invece resta per tutta la vita. Esplorare significa andare fuori dall'area di comfort e nel mondo dello sconosciuto mentre di solito una performance si fa su un itinerario o su vette già salite e conosciute. Fare alpinismo solo in un’ottica di performance è un’idea figlia del nostro tempo e dura solo fino a quando arriva qualcuno in grado di fare di meglio. Esplorare insomma vuol dire anche fallire, ma riuscire comunque a spostare un po' più in là la conoscenza di una zona, di un percorso, di una montagna, di una parete, di una via. Il tuo libro è un’occasione per rivivere decennio dopo decennio momenti storici dell’alpinismo. Sono tantissimi i nomi di quelli con cui hai arrampicato, scalato, o semplicemente con cui hai condiviso momenti importanti. Quali sono i tuoi riferimenti più importanti, il tuo pantheon? I miei riferimenti li sanno tutti. Walter Bonatti, perché mi ha dimostrato che anche nascendo a Bergamo potevi diventare un grandissimo alpinista, quindi non era necessario nascere per forza a Cortina o a Courmayeur ed essere un predestinato. E quindi lui è stato il primo modello. L'altro grandissimo modello è stato Reinhold Messner, perché mi ha dato le basi dalle quali ho appreso come poter diventare un alpinista professionista e non solo un alpinista o un bravo alpinista, cioè per trasformare in una quotidianità, anche finanziariamente parlando, un grande sogno come quello dell'alpinismo. Come vedi il futuro delle persone che vivono e lavorano in e con la montagna? Sono ottimista qualora vi sia un cambio di rotta: bisogna permettere a chi lavora in montagna, pastori, malgari e così via, di avere un accesso che non sia per forza alpinistico alle loro malghe. Dobbiamo metterci in testa che bisogna fare anche delle strade pastorali, agro-silvo-pastorali, quindi non aperte al pubblico, ma che permettano a costoro di poter andare nelle loro stalle, nelle loro malghe. Il Trentino Alto Adige ha avuto la lungimiranza di capirlo e sono diventate anche luoghi per camminamenti, passeggiate anche per disabili o per famiglie. Qui da noi, nel Veneto, in Piemonte, in Lombardia e così via, è ancora radicata la convinzione che fare una stradina agro- silvo-pastorale per portare giù il latte dalle malghe o per portare ciò che serve in quota sia blasfemo. Bisogna entrare nella mentalità di dare aiuti concreti a chi lavora in montagna, contributi reali: se un gestore vuole avere Internet nella malga o vuole ottimizzare i sistemi di comunicazione, deve ricevere un contributo. Chiudiamo con l’angolo delle stranezze. Pochi mesi fa ha fatto parecchio discutere l’impresa di quattro britannici che, partiti da Londra, hanno raggiunto la vetta del Monte Everest in meno di cinque giorni e sono ritornati in patria in meno di una settimana, utilizzando tende ipossiche a casa per simulare l’alta quota e una somministrazione controllata di gas xenon per stimolare la produzione di eritropoietina , sostenendo così potenzialmente l’adattamento del corpo all’altitudine. Che giudizio dà di questa “impresa”? La mia opinione in merito è molto negativa: non hanno usato solo il gas, ma hanno dovuto fare anche un lungo periodo in camera ipobarica. Quindi di fatto, a differenza di come è stata raccontata la storia, non si sono semplicemente alzati e un giorno e in una settimana sono andati in cima e sono tornati ma hanno dedicato del tempo per acclimatarsi e l'hanno fatto in un luogo diverso. Quindi anziché aspettare un mese e mezzo in Himalaya, stavano tutti i giorni o delle notti, delle ore dentro una tendina e poi uscivano e andavano al pub. Cosa che se invece fossero stati in Nepal questa comodità non avrebbero potuto averla. Ma è puro marketing, cioè non c'è nulla di nuovo. C'è già gente, anche Sherpa, che hanno fatto anche gli Ottomila in meno tempo, perché anziché usare lo xenon o stare in una camera ipobarica, si sono acclimatati su altre montagne. Insomma, a dirla tutta, per me è una cagata pazzesca!

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

L’alpinismo secondo Moro: "La mia aria sottile, vietato improvvisare"

Daniele Moretti