Carne coltivata vs carne allevata, le nuove sfide per ridurre l’impatto ambientale

Ambiente
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Lo scorso giovedì 16 novembre la Camera ha approvato una legge che vieta la produzione e l’importazione della carne coltivata in Italia. Una decisione controversa e molto discussa, tra chi vorrebbe proteggere la salvaguardia ambientale e chi difende l’agricoltura tradizionale

Niente alimenti né mangimi creati a partire da colture cellulari, niente tessuti derivanti da animali vertebrati, nessun appellativo di “carne” utilizzato per definire prodotti trasformati contenenti proteine vegetali. È quanto impone il disegno di legge n. 1324 approvato dalla Camera lo scorso giovedì 16 novembre, che introduce il divieto di produrre e importare in Italia la cosiddetta “carne coltivata”. La decisione ha fatto molto discutere un’opinione pubblica spaccata tra chi legge nella misura il segno di una chiusura arretrata e non conforme alle linee guida europee e chi, al contrario, la apprezza come segnale di difesa del sistema agroalimentare tradizionale. In un dibattito che rientra ancora in larga parte nel campo della ricerca sperimentale sono numerosi i punti di attrito e anche di incertezza che caratterizzano l’argomento. 

Carne sintetica o carne coltivata?

Un primo punto su cui è opportuno fare chiarezza è la terminologia stessa. Spesso si sentono utilizzare come fossero sinonimi le espressioni “carne sintetica” e “carne coltivata”, ma sono davvero la stessa cosa? Per l'Organizzazione mondiale della Salute non ci sono dubbi: si dovrebbe parlare sempre di "carne coltivata in laboratorio". Ma Giuseppe Pulina, presidente dell’associazione no profit Carni Sostenibili e docente all’Università di Sassari, sostiene che nessuna delle due formule (sintetica o coltivata) sarebbe pienamente corretta: “Non si tratta di carne sintetica, perché la biologia sintetica è quella che parte da elementi non vitali, inanimati, per creare invece la vita, cosa che nel processo in questione non accade”. Al tempo stesso, secondo l’esperto, anche la seconda denominazione sarebbe impropria, perché racchiude al suo interno tanto la radice di “agricoltura” che di “cultura”, settori per lui molto distanti dai meccanismi impiegati per creare quella che invece sarebbe più appropriato definire “carne artificiale”. “Nel processo di produzione, la modalità di sviluppo di tessuti è extra-corporea, esattamente come la fecondazione in vitro che viene denominata “artificiale” dalle norme – spiega –. La carne artificiale viene prodotta prelevando delle cellule staminali dei muscoli e simulando extra-corporalmente quello che la natura fa per rigenerare la ferita ad un muscolo”. In questo modo si ottiene un biomateriale, commestibile, che deriva dalla proliferazione di cellule staminali animali prodotte non da allevamento ma in laboratorio. “Si tratta di un processo molto diverso da quello impiegato per produrre, per esempio, un hamburger vegetale: in quel caso si assemblano elementi già esistenti, qui invece si crea un prodotto totalmente nuovo, con procedure di natura farmaceutica. E i costi sono molto elevati, da tutti i punti di vista”. 

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Costi economici, energetici, salutari

La proliferazione di cellule necessita del controllo di antibiotici e antimicotici. La crescita di tessuti all’esterno del corpo avviene poi su dei substrati che devono essere interamente privi di tossine ambientali e il costo di questa purificazione è elevato, sia in termini economici che energetici. Per dare un’idea della portata Pulina cita la letteratura scientifica, secondo cui per produrre un chilo di carne artificiale si emetterebbero 9 chili di CO2, usando soltanto antibiotici e senza substrati purificati. Cifre che uguagliano il livello di emissioni prodotte con la carne naturale. “Se invece non si utilizzano antibiotici e si ricorre all’ultra-purificazione dei medium il numero di emissioni per chilo di carne può raggiungere dai 300 ai 1500 chili di CO2, perché i medium ultra-purificati sono molto dispendiosi in termini di energia. Cioè da 4 a 25 volte di più rispetto alla carne prodotta naturalmente”. Ai costi si sommano poi i rischi per la salute umana. La Fao, insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha valutato la sicurezza dei cibi artificiali, evidenziando ben 53 pericoli potenziali. Agli stessi rischi cui sono sottoposti anche gli altri alimenti, nei confronti dei quali i cibi artificiali non offrono maggiori garanzie, si aggiungono quelli propri, legati all’eventualità di infezioni, contaminazioni biologiche e mutazioni genetiche. 

Gli interrogativi legati a questi nuovi metodi di produzione sono quindi ancora numerosi, ma “proibirla completamente con una legge non è risolutivo e preclude la possibilità di ricerca e sperimentazione”, sostiene Angelo Gentili, responsabile nazionale agricoltura di Legambiente. 

Dove sta la soluzione?

“Penso che in ogni caso la carne artificiale non costituisca la risposta alle problematiche sia etiche, sia di sostenibilità, sia di salute che l’intensificazione dell’allevamento sta ponendo” prosegue Gentili. Piuttosto, andrebbero evidenziati con forza i guasti della zootecnia intensiva: dalla dipendenza mangimistica che condiziona le foreste equatoriali e azzera la biodiversità, all’uso di antibiotici e sostanze chimiche, al mancato rispetto del benessere animale, all’inquinamento di acqua, aria e suolo. Fattori che rendono questo ambito responsabile dei 2/3 delle emissioni dell’intero settore agroalimentare. “Il problema è più ampio e non si risolve in una logica di contrapposizione tra la carne coltivata come sostitutiva di quella allevata. Bisognerebbe lavorare su metodi diversi di allevamento, meno legati a una produzione senza terra e senza pascolo, perché è lì che sta il futuro: nel suolo agrario, nella valorizzazione delle aree marginali e distintive del made in Italy, nella capacità che avrà il nostro paese di guardare non alla quantità, ma alla qualità”. 

 

A cura di Ludovica Rossi

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