Russiagate, primi arresti. Ex consigliere Trump "collabora"

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Foto d'archivio (Getty Images)

George Papadopoulos si è dichiarato colpevole di false dichiarazioni e starebbe parlando con gli investigatori. Ai domiciliari l'ex capo della campagna elettorale, Paul Manafort, e il suo socio. Facebook: post russi visti da 126 milioni di americani

George Papadopoulos, ex consigliere di Trump arrestato a fine luglio, starebbe collaborando in maniera "proattiva" con gli investigatori. È quanto emerge dai documenti depositati dall’ufficio del procuratore speciale del Russiagate Robert Mueller. Papadopoulos starebbe mantenendo quindi la linea della collaborazione: l’ex volontario della campagna di Trump, dopo essere stato arrestato, si era dichiarato colpevole per aver reso false dichiarazioni all'Fbi sui contatti con rappresentanti russi. E, secondo alcuni media statunitensi, l’uomo potrebbe aver registrato anche delle conversazioni, sia telefoniche, sia di persona. Intanto il presidente è tornato sull'argomento twittando che "non c'è collusione".

Manafort e Gates ai domiciliari

A cinque mesi dalla sua nomina, il 30 ottobre, il procuratore Mueller ha fatto partire le prime incriminazioni legate all’inchiesta sul ruolo della Russia nelle elezioni presidenziali americane del 2016. I destinatari sono Paul Manafort, 68 anni ed ex capo della campagna elettorale di Trump, e il suo ex socio, Rick Gates, di 46 anni. Entrambi hanno preferito consegnarsi spontaneamente all'Fbi, dopo le anticipazioni dell'inchiesta, pubblicate anche sul New York Times. A loro carico ci sono 12 capi di imputazione, ma i due, davanti a un giudice federale di Washington, si sono dichiarati "non colpevoli". In caso di condanna, potrebbero rischiare una pena che prevedere fino a 70 o 80 anni di carcere e decine di milioni di dollari di multe. Al momento, hanno ottenuto gli arresti domiciliari.

Casa Bianca: "Niente a che fare con Trump". Lui: "Non c'è collusione"

La Casa Bianca, ieri, ha commentato così gli arresti: "Niente a che fare con il presidente, con al presidenza e con la campagna elettorale. Abbiamo detto dal primo momento che non ci sono segnali di collusione e le incriminazioni di oggi no cambiano questo fatto". Le accuse, che si riferiscono a fatti compresi tra il 2006 e il 2017, non sarebbero direttamente collegate alla campagna elettorale, ma vanno dalla cospirazione contro gli Usa, al riciclaggio, fino all’omessa registrazione come agenti stranieri e alla mancata denuncia di conti in banche estere. "Mi dispiace, ma tutto questo risale ad anni fa, prima che Paul Manafort fosse parte della campagna di Trump", aveva twittato il presidente stesso, sulla questione. E oggi il Tycoon è tornato sull'argomento, sempre con una serie di Tweet, dove ha anche scritto: "Le fake news stanno facendo gli straordinari. Come ha detto il legale di Manafort, 'non c'è collusione'".

Il ruolo di Papadopoulos

Quanto a Papadopolous, sembra che l'ex consigliere abbia avuto contatti con un non meglio precisato professore di Londra, che gli aveva svelato come i russi avessero materiale compromettente su Hillary Clinton, e con una donna russa che sosteneva di essere una nipote di Putin. Attraverso di loro, propose di organizzare un incontro tra i dirigenti della campagna di Trump e la leadership russa, "incluso Putin". La proposta fu però respinta.

Facebook: post russi visti da 126 milioni di americani

Intanto, Facebook sostiene che i contenuti sponsorizzati dalla Russia durante le elezioni presidenziali Usa potrebbero essere stati visti da 126 milioni di americani. L’informazione è contenuta in una dichiarazione scritta depositata alla Commissione Giustizia del Senato che sta indagando sul Russiagate, secondo quanto riporta la Cnbc. La propaganda di Mosca per influenzare la politica americana è stata di 80mila post su Facebook, secondo il social media, in un periodo che va da giugno 2015 ad agosto 2017. I manager di Facebook, Twitter e Alphabet saranno sentiti questa settimana da tre commissioni parlamentari che stanno indagando sulle interferenze del Cremlino nei mesi precedenti e successivi all'Election day dello scorso 8 novembre. Nella dichiarazione di Facebook si segnala anche come gli 80mila post rappresentino solo una piccola frazione del totale: il rapporto è di uno ogni 23mila. 

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