Non solo car sharing, il futuro della mobilità sostenibile e condivisa

Ambiente

Giovanni De Faveri

Tra i servizi di car sharing anche quello elettrico: ma l'Italia sembra non puntare su questi veicoli (Fotogramma)
Fotogramma-car_sharing

Intervista a Ivana Pais, docente in Cattolica ed esperta di sharing economy. Tra le ultime tendenze in Usa c'è il peer-to-peer. Ovvero: la mia macchina è in strada inutilizzata? Io la metto a disposizione degli utenti

Peer-to-peer, mobilità integrata, cambio di mentalità. E maggiore consapevolezza, soprattutto per quanto riguarda i nuovi servizi come il bike sharing "cinese" a Milano. È legato a questi aspetti il futuro prossimo della sharing mobility. Parola di Ivana Pais, docente di Sociologia economica all'Università Cattolica di Milano, che però ammette: "Preferisco non fare previsioni, la futurologia non è il mio forte".

Car sharing e car pooling

Quando si parla di mobilità condivisa, la prima cosa che viene in mente è il car sharing, in Italia diffuso soprattutto a Milano. Modello che, pur essendo "funzionale ed efficace (anche a livello ambientale, ad esempio con la comprovata riduzione degli acquisti di seconde auto) – ricorda Pais – è paradossalmente la forma meno 'sharing' che esista". "Quando utilizzo il car sharing, in realtà sto pagando l'affitto a brevissimo termine di un mezzo, e manca del tutto la dimensione relazionale, uno degli aspetti che connotano la sharing mobility". Dimensione che invece esiste nel car pooling, ossia l'utilizzo di un unico mezzo da parte di un gruppo di persone che compiono uno stesso tragitto: in Italia, nel 2016, quello aziendale ha fatto "risparmiare" in totale 647mila km.

Tante idee ma pochi soldi

Tra gli esempi di car pooling possiamo citare BlaBlaCar, unica grossa azienda europea (è francese, ndr) degna di menzione – per la professoressa – tra quelle della sharing mobility. Il perché siano le aziende statunitensi (e ora, vedremo, anche quelle asiatiche) a farla da padrone nel panorama della mobilità condivisa è presto detto: "I capitali investiti e la lingua: l'inglese arriva a tutti, quindi per forza di cose la base di clienti è diversa". Per quel che riguarda l'Italia, la situazione può essere così riassunta: buone idee ma pochi investimenti. "Nel nostro Paese – prosegue l'esperta di sharing economy – ci sono tante start-up che nascono ma non trovano il loro spazio nel mercato perché manca un sistema che le sostenga".

Peer-to-peer e cambiamento culturale

"Una tendenza che sta prendendo piede negli Usa è quella del peer-to-peer. Ovvero: la mia macchina è in strada inutilizzata? Io la metto a disposizione degli utenti", spiega Ivana Pais. Una formula che, però, "in Italia ha dei vincoli, legati principalmente ai problemi assicurativi – aggiunge – ma che potrebbe aiutare a ottimizzare il parco auto a disposizione". Oltre all'aspetto assicurativo – risolvibile – c'è anche quello culturale da tenere in considerazione: "Per le vecchie generazioni, l'attaccamento all'auto intesa come status symbol è ancora molto forte, fattore che non permette questa forma di condivisione. Le nuove, invece, sembra siano più pronte al cambiamento".

Puntare sulla mobilità integrata

Tra le conclusioni dell'ultima Conferenza sulla sharing mobility che si è tenuta a Roma lo scorso 23 novembre e alla quale – ci tiene a precisare – non ha partecipato, Ivana Pais condivide in particolare "la necessità dell'integrazione con il trasporto pubblico locale". Il tutto partendo dal presupposto che "il sistema riflette le caratteristiche del contesto in cui è inserito, cioè funziona dove c'è un meccanismo che già funziona". Non è quindi il caso che in una realtà come quella della capitale, alle prese con gli atavici problemi di gestione del sistema di trasporti pubblico, i mezzi in condivisione funzionino peggio che altrove. Per quanto riguarda i centri più piccoli, il problema sta invece nei numeri, ma qui "la sharing mobility può essere un'opportunità proprio laddove il servizio pubblico è carente: ad esempio, il car pooling funziona bene in alcune aree montane".

Bici e consapevolezza

Un altro aspetto di novità è rappresentato dallo sbarco dei nuovi operatori cinesi del bike sharing a Milano: Ofo e Mobike, per intenderci. "Le bici diventano un pretesto per ottenere dei dati – spiega Pais – il modello business di queste compagnie non si basa sulle biciclette ma sul fatto che tutti quelli che le utilizzano accettano di cedere le proprie informazioni. Il problema è l'assoluta mancanza di consapevolezza da parte dei consumatori". Sempre riguardo alle due ruote, la prof interpellata esprime anche la sua opinione sul fallimento dell'esperimento di condivisione scooter a Milano (nonostante il recente tentativo di rilancio con motorini elettrici): "Si tratta di un mezzo più 'complicato' da condividere per tutta una serie di ragioni, a partire dall'igienizzazione del casco. E poi, questi mezzi in condivisione funzionano con volumi alti" e gli scooter messi in strada erano troppo pochi.

Un altro mezzo flop: l'elettrico

Discorso simile a quello degli scooter, per quel che riguarda il numero esiguo, può essere fatto per il car sharing elettrico. "Gli investimenti, almeno in Italia, non vanno in questo senso, viste anche le recenti dichiarazioni di Sergio Marchionne": solo una decina di giorni fa, l'ad di Fca, durante la lectio magistralis per la laurea ad honorem ricevuta a Rovereto, ha infatti ammesso che "l'auto elettrica è un'arma a doppio taglio". Chiudiamo con quello che sembra un futuro ancora troppo lontano: le auto a guida autonoma. "Anche se i test procedono a velocità interessante – conclude Pais – l'Italia ha una conformazione complessa: una cosa è testare le auto sulle autostrade americane, un'altra nei borghi italiani". Motivo per cui su questo fronte ci sarà ancora da aspettare, almeno a queste latitudini.

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