Social e consenso, Belisario: “Ecco cosa rischia il gruppo Mia moglie”

Il gruppo Facebook “Mia moglie”, dove si scambiavano commenti sessualizzanti sotto foto di donne apparentemente ignare, è stato chiuso da Meta e si è spostato su altre piattaforme. Il caso, come altri simili, fa luce sulla cosiddetta “cultura dello stupro” e su come, al di là del voyeurismo, la società ha difficoltà a fare i conti con il principio del consenso. Con Ernesto Belisario, avvocato ed esperto di amministrazione digitale, abbiamo parlato di cosa rischiano i partecipanti al gruppo e come denunciare casi di violenza sessuale online. Il gruppo Facebook “Mia moglie” ha scatenato polemiche e indignazione, ma non è la prima volta che saltano fuori chat in cui gruppi di uomini condividono foto di donne in modo non consensuale. Attiviste e sociologhe parlano di una forma di “stupro digitale”. Giuridicamente come si inquadra? Lo stupro digitale è un’espressione sociologica e mediatica usata per identificare questo tipo di violenza. Si può usare in senso descrittivo, vista la gravità dei fatti. Dal punto di vista giuridico non esiste. Si può parlare, piuttosto, di una serie di fattispecie di reato: innanzitutto, la diffusione illecita di immagini in modo non consensuale. C’è da dire, però, che nell’universo di “Mia moglie” ci sono anche immagini diverse, che potrebbero essere anche consensuali. Quali sono, quindi, i contenuti problematici? E di quali possibili reati parliamo? Se dovessimo mettere in fila i reati che potrebbero essere contestati ai partecipanti sarebbero: diffusione illecita video e immagini sessualmente espliciti , che è una fattispecie applicabile solo se le immagini erano inizialmente condivise in privato con la consapevolezza dei partner, e poi vengono diffuse senza permesso. Poi c’è l’art 615bis del Codice penale, quello sulle interferenze nella vita privata che sanziona chi si procura indebitamente informazioni o immagini in luoghi privati e senza consenso. Il caso più difficile è quello che riguarda la ripresa avvenuta in luogo pubblico. Inoltre, c’è l’art. 617septies, che punisce chi diffonde registrazioni fatte fraudolentemente, di incontri privati o conversazioni – sembra più il caso di De Martino – e infine possono essere contestati reati come quello della diffamazione. A proposito delle immagini diffuse nel gruppo Facebook “Mia moglie”, alcune ritraggono donne in spiaggia mentre prendono il sole o sul divano mentre guardano la tv. Il contenuto, quindi, riguarda anche situazioni piuttosto ordinarie. Dove si produce l’illecito penale? Se attraverso commenti o didascalie si offende la persona ritratta, quello è un illecito e il mezzo social rappresenta un’aggravante. Altre conseguenze possono essere la violazione del diritto di immagine o della privacy, oltre a conseguenze civili. Queste norme presentano criticità applicative, legate al fatto che sono state costruite guardando specifiche fattispecie, e invece il gruppo “Mia moglie” incontra alcune disposizioni in modo tangenziale. Questo può determinare alcune difficoltà tecniche investigative. Quali pene rischiano i partecipanti al gruppo? Nel caso del cosiddetto revenge porn, le sanzioni sono la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5 a 15mila euro. Per le interferenze nella vita privata da 6 mesi a 4 anni. Nel caso del 617septies la reclusione fino a 4 anni, e per la diffamazione fino a 1 anno, escluse le aggravanti e fino a 3 anni se aggravata a mezzo stampa o social. E nei casi di gruppi Facebook si applica quasi sempre questa ultima opzione. L’azione giuridica e quella culturale non si escludono: sicuramente dare maggiore struttura e adeguare le norme alla realtà è importante, perché queste pene non sembrano così alte rispetto alla gravità percepita. Bisogna, però, fare attenzione a legiferare sull’onda dell’indignazione e pensare a norme strutturate che riescano a mettere a sistema queste fattispecie. E chi non partecipa attivamente, pur essendo iscritto al gruppo, cosa rischia? Se l'utente è completamente passivo non si può contestare nessuna responsabilità. Invece, laddove un utente commenti, e quindi scriva frasi offensive, questo potrebbe configurare diffamazione aggravata a mezzo social. Oppure potrebbe essere considerato un istigatore, dipende dal contenuto. Se invece inoltra anche solo in privato una foto, ricade allora nell'art. 612ter del Codice penale. Qual è il ruolo delle piattaforme come Facebook, in casi di questo tipo? Che tipo di policy hanno? Le piattaforme hanno delle loro policy, relative ad esempio alle foto di nudo. Si pensi anche, ad esempio, alle associazioni per la lotta al tumore al seno, che provano a postare foto innocenti per cause più che nobili ma gli algoritmi le bloccano. Esistono anche policy contro lo sfruttamento sessuale delle persone adulte. Questo gruppo, però, era presente su Facebook da 7 anni: quindi per quanto possa esserci la policy, solo quando un numero di utenti ha segnalato in massa e ha spinto i moderatori a intervenire allora questo ha convinto la piattaforma Meta a chiudere il gruppo. Altro caso riguarda le piattaforme come Telegram: è più difficile, hanno chat criptate e senza moderatori, la piattaforma interviene solo quando la contrarietà alle norme viene accertata. Teniamo anche conto che sono policy uguali per ogni area geografica e quindi non riflettono le peculiarità del diritto penale dei singoli Paesi. Purtroppo, i requisiti per rimuovere un contenuto, a meno che non sia una fattispecie specifica, non sono trasparenti. La prima segnalazione del gruppo “Mia moglie” è arrivata alla scrittrice ed esperta di questioni di genere, Carolina Capria, da una donna che le chiedeva aiuto perché aveva provato varie volte a denunciare alla polizia postale, ma senza risultati. Il gruppo è rimasto in piedi, come abbiamo detto, per 7 anni. Come si muove la polizia postale una volta contattata? La polizia postale fa le sue indagini, contatta i provider e poi possono esserci provvedimenti cautelari, oltre alla richiesta anche di rimozione del contenuto. Si possono identificare utenti anonimi? Anche se non sembra il caso dei frequentatori del gruppo in questione, che avevano quasi tutti nomi e cognomi in chiaro, oltre a foto profilo con la loro famiglia. L’anonimato in rete è il minore dei problemi. Grazie alle indagini si può quasi sempre risalire all’account anonimo. E se il gruppo viene chiuso, si perdono le prove? Si possono comunque rintracciare i contenuti offensivi, se si agisce tempestivamente. Le piattaforme conservano tutto per un certo lasso di tempo. In questo modo si possono raccogliere le prove e quindi agire penalmente. Ma ci dev’essere una querela o una denuncia e gli inquirenti devono contattare rapidamente gli operatori del social media. Perché gli inquirenti si interessino a un caso simile, e quindi lo iscrivano nel registro delle notizie di reato, non basta la denuncia collettiva. Giusto? Giusto. Si tratta di reati procedibili per querela. Solo le vittime possono formalizzarla, con dettagli e prove disponibili . La ratio per cui non basta, all’ordinamento italiano, che una persona denunci un gruppo con contenuti offensivi di questo tipo, risiede nel fatto che il diritto tende a tutelare la vittima, e si ritiene perciò che procedere per querela risponda a questa necessità.

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Agnese Ranaldi