Lavoro, umani vs IA: la nuova lotta di classe nell’era dell’automazione?

Prima gradualmente, poi tutto insieme. Come una valanga di neve che si accumula piano piano e poi romba a valle. È come spesso viene descritto l’arrivo di cambiamenti sociali profondi, sospinti da innovazioni che sconvolgono il panorama attuale. Nel 2013 dei ricercatori della Oxford Martin School stimarono, in un celebre paper, che almeno il 47% delle occupazioni svolte dai lavoratori americani fosse a rischio automazione. Dopo lo scalpore iniziale, non se n’è più parlato molto, se non fra gli addetti ai lavori, ma negli ultimi tre anni l’arrivo dei grandi modelli di linguaggio e dei chatbot AI ha cambiato tutto. Per le strade di San Francisco e altre metropoli americane campeggiano i cartelloni pubblicitari di Artisan, una startup che invita le aziende a “smettere di assumere umani” perché è arrivata “l’era degli impiegati AI”. Un’altra startup, Mechanize, si pone come obiettivo nientemeno che quello di “automatizzare l’intera economia”. Potrebbe far sorridere, fino a che non si legge che fra i finanziatori di Mechanize ci sono il Chief Scientist di Google, Jeff Dean, e il miliardario fondatore di Stripe, Patrick Collison. Colletti bianchi a rischio Il cambiamento è qui, sta accelerando e, anche se l’AI non ne è l’unica causa, se ne vedono già i segni, soprattutto negli Stati Uniti , nel blocco delle assunzioni, nei massici tagli di alcune grandi aziende tech e nella difficoltà per i neo-laureati a entrare nel mondo del lavoro. Soprattutto per quei lavori da "colletti bianchi” che prevedono l’utilizzo del computer per creare contenuti, codice o report. Secondo il governo britannico, due terzi dei compiti svolti dagli impiegati junior potrebbero essere affidati all’intelligenza artificiale. Westminster punta così a tagliare i costi, eliminando circa 10.000 posti di lavoro. A maggio, Microsoft ha licenziato 6.000 programmatori, citando la necessità di riorganizzare il lavoro, ora che l’AI scrive il 30% di tutto il codice generato. Klarna, fintech svedese che si fa garante dei pagamenti a rate di chi si iscrive al suo servizio ha licenziato l’anno scorso 1200 dipendenti per sostituirli con dei chatbot. Salvo poi scoprire, pochi mesi dopo, che la qualità del servizio offerto era scaduta rapidamente e ripristinare in parte la forza lavoro in carne e ossa. Le considerazioni dell’amministratore delegato Sebastian Siemiatkowski sulla difficoltà di sostituire in certe mansioni il tocco umano, fanno il paio con le conclusioni di un rapporto Gartner in cui metà delle aziende intervistate si dice pronta ad abbandonare i piani di ridurre drasticamente e automatizzare l’assistenza clienti. Meglio, in prospettiva, utilizzare team “ibridi” in cui agenti AI coabitano con colleghi umani per potenziare e allargare il campo d’azione dei servizi offerti. Navigazione a vista Pare evidente che al momento ci si muova un po’ a tentoni. Che la tecnologia per rimpiazzare in molti compiti il lavoro umano esista, e stia costantemente migliorando, è un dato di fatto. Che l’adozione dell’AI in azienda avrà un impatto sempre più forte sull’occupazione, pure. Dove e come colpirà maggiormente, è più difficile da capire. È verosimile che l’effetto sia molto diversificato, sia a livello geografico che di settori. Secondo l’International Monetary Fund, in società tecnologicamente ed economicamente sviluppate come quelle dell’Europa, del Nord America, di Giappone, Corea del Sud, Australia il 60% dei lavori è suscettibile di essere in tutto o in parte automatizzato nel breve e medio periodo. Nelle economie in via di sviluppo la percentuale scende al 26%. Ciò è dovuto a vari fattori: nei Paesi più poveri, il lavoro costa meno, quindi le aziende hanno meno interesse ad automatizzare. Inoltre, sono meno diffusi i lavori nei servizi e nel manufatturiero campi in cui, come abbiamo visto, gli umani sono più suscettibili di essere rimpiazzati. In queste nazioni predomina ancora, spesso, un’agricoltura low-tech; cosa che, assieme all’esistenza di una vasta economia informale, fatta di lavori non facilmente incasellabili, protegge la società dall’impatto dell’automazione. D’altra parte, AI e robotica favoriranno l’aumento della produttività nelle società cosiddette avanzate, che, a causa dell’invecchiamento della popolazione, farebbero altrimenti fatica a stare al passo. Un caso a sé è quello della Cina che, pur non essendo una società ad alto reddito come quelle occidentali, è all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e si candida ad essere uno dei pionieri nella sostituzione del lavoro umano con le macchine nelle fabbriche . I nuovi lavori Fra i settori più colpiti dell’automazione nel breve e medio periodo, si prevede vi siano quello finanziario, i trasporti e la logistica, il manufatturiero, i lavori “creativi” nei media, nel marketing e nel design, quelli nel campo della pubblica amministrazione e nel settore Ict . Secondo un’analisi del World Economic Forum i tagli verrebbero comunque più che compensati dalla creazione di nuovi lavori. Il WEF ritiene che entro il 2030 potrebbero emergere circa 170 milioni di nuovi posti di lavoro, mentre circa 92 milioni di posti di lavoro verrebbero persi, con un aumento netto totale dell'occupazione del 7%. Come arriva a queste cifre il Forum? Tramite un sondaggio di 38 domande somministrato ai dirigenti di 1.043 grandi imprese di vari settori e zone del pianeta. Non viene considerata quindi l’opinione delle piccole e medie imprese. Altre e più pessimistiche interpretazioni, meno quantitative e più filosofiche, ritengono che, nell’attuale contesto socio-economico, l’adozione dell’AI sia destinata invece ad accrescere le disuguaglianze e a dividere l’umanità fra chi ha il controllo dei mezzi e degli algoritmi di produzione, ed è quindi beneficiario di questi tutta la ricchezza prodotta e il lavoratore medio, costretto ad abbassare sempre più le proprie pretese per far fronte alla concorrenza delle macchine. In ogni caso, pur nello scenario tutto sommato positivo del WEF, ai lavoratori verrà chiesto uno sforzo consistente per riqualificarsi e passare dal vecchio lavoro a quello di là da venire. Per fronteggiare nella maniera più indolore possibile questa transizione, termini come “upskilling” e “reskilling” dovranno diventare parte integrante del vocabolario di aziende e policy-makers. Non mancano fin d’ora gli esempi virtuosi ma si tratta di una consapevolezza ancora non abbastanza diffusa.

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